I. - Il coinvolgimento della persona del lavoratore nell'esecuzione del contratto di lavoro ha marcato la vocazione garantista del diritto del lavoro, tradizionalmente presidiata dall'inderogabilità delle sue norme basilari e blindata dall'usbergo delle norme costituzionali di tutela dei diritti fondamentali della persona. Il diritto del lavoro, munito di rafforzata copertura costituzionale, si è storicamente contraddistinto come diritto di protezione del contraente endemicamente debole, perché endemicamente diseguale rispetto alla propria controparte .

La capacità del diritto del lavoro di riconoscere asilo alle esigenze di tutela degli interessi non patrimoniali, d'infondere nuova vita nei canoni della buona fede e della correttezza e d'imprimere spinta propulsiva alla solidarietà sociale entro l'intelaiatura del diritto civile ha scosso l'anima patrimonialistica del diritto dei contratti e delle obbligazioni: ne è derivato l'aggiornamento di talune categorie civilistiche, che si sono andate calibrando non più soltanto sull'avere, ma anche sull'essere , superando in questo modo interpretazioni in passato causticamente definite agnostiche .

L'anima di garanzia del diritto del lavoro ha consentito d'incanalare, dandovi qualche risposta, l'insoddisfazione dei civilisti, i quali da tempo lamentavano che «un principio fondamentale signoreggia nei codici moderni tutto il diritto contrattuale, che cioè, assicurata l'eguaglianza di diritto, il legislatore debba rimettere alla volontà e libertà delle parti ogni stipulazione che non leda l'ordine pubblico o il buon costume. Il legislatore non solo si dichiara impotente ad attenuare gli effetti dolorosi delle leggi economiche naturali, ma si disinteressa dell'apertissima iniquità, cui in fatto può dare causa la pretesa eguaglianza di diritto dei contraenti» .

La spinta propulsiva dei lavoristi ha fatto da grimaldello per l'inaugurazione, nella dinamica del contratto, di nuove frontiere di tutela di situazioni soggettive del contraente debole, e, in particolare, del danno non patrimoniale da questi subìto. L'obbligo del datore di lavoro di tutelare in seno al rapporto l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, fissato dall'art. 2087 c.c., e la copertura costituzionale dell'integrità fisica e della personalità morale hanno consentito di affermare la risarcibilità del danno subìto dal lavoratore dalla lesione della personalità morale e, comunque, di diritti inerenti alla sua persona , anche se la fonte del pregiudizio consista in un inadempimento contrattuale .

Del resto, come oggi espressamente rimarcano le sezioni unite di novembre 2008, già in generale il diritto dei contratti ammette la rilevanza di interessi di natura non patrimoniale, come emerge dall'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione oltre che suscettibile di valutazione economica, può corrispondere anche ad un interesse non patrimoniale del creditore.

II. - La tutela degli interessi non patrimoniali del lavoratore è andata dunque ad integrare la c.d. causa concreta del contratto di lavoro , data dall'incontro dei concreti interessi delle parti con gli effetti essenziali del contratto .

Piana e lineare sembrava e sembra, dunque, l'affermazione della risarcibilità del danno non patrimoniale alla persona del lavoratore. Tanto che verosimilmente pleonastica pare in questo settore quella giurisprudenza che fa leva sul cumulo di responsabilità, asserendo che il danno biologico può in astratto conseguire sia all'una responsabilità, di natura extracontrattuale, sia all'altra, di natura contrattuale (10) ed anche al cospetto di un medesimo fatto generatore di danno, che integri sia gli estremi dell'inadempimento contrattuale, sia il torto aquiliano, come, ad esempio, nel caso delle lesioni subite dal lavoratore per inosservanza di norme antinfortunistiche .

In questo contesto, più pleonastica ancora può sembrare l'applicazione, sempre a protezione della personalità morale del lavoratore, del concetto contenitore del mobbing, trapiantato dall'etologia e divenuto presto di moda nelle aule di giustizia e come argomento di disquisizioni accademiche .

Recente giurisprudenza di merito ha ammesso che il mobbing «non ha la sua fonte regolatrice nella legge, ma nella giurisprudenza che nel corso degli anni ha individuato i tratti caratterizzanti di un fenomeno socio-culturale» .

ed infatti, tutti i tentativi di fornire una base di diritto positivo a questo fenomeno socio-culturale sono falliti:

—la l. reg. Lazio 11 luglio 2002 n. 16 (disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro) è stata bocciata dalla Corte costituzionale , perché in violazione di alcune aree demandate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato;

—le successive leggi regionali si sono ben guardate dal dettare una definizione generale del mobbing e dal dettarne esemplificazioni, limitandosi a regolare aspetti di contorno ;

—è stata annullata dal giudice amministrativo la circolare dell'inail n. 71 del 17 dicembre 2003, sulla c.d. costrittività organizzativa nei luoghi di lavoro, che è apparsa costruita su un postulato, in quanto connetteva l'insorgenza di malattia psichica o psicosomatica a determinati fattori di nocività prescindendo dalla dimostrazione del nesso di causalità, che in questi casi grava sul lavoratore;

—sono rimasti allo stato lettera morta i disegni di legge in argomento e, in particolare, il d.d.l. S22 che si prefiggeva di dettare una disciplina completa del mobbing .

Non esiste dunque, ad oggi, una disciplina normativa del mobbing, tuttora ancorato soltanto alla risoluzione del parlamento europeo n. AS-0283/2001 del 21 settembre 2001, intitolata al « mobbing sul posto di lavoro» .

III. - In realtà, mediante il mobbing si è proceduto ad espandere e dilatare la nozione di ingiustizia della condotta datoriale, ravvisandone l'antigiuridicità anche in ipotesi di comportamenti materiali o di provvedimenti contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione con connotazione emulativa e pretestuosa, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali .

La protrazione nel tempo di condotte, anche omissive, di per sé lecite, ha indotto dunque la giurisprudenza a qualificarle nel complesso come mobbing, assegnando loro connotati d'illiceità . Dunque, la protrazione del tempo sorretta dalla volontà persecutoria è capace, secondo la giurisprudenza, di far cambiare natura, trasformando singoli atti legittimi in un'unitaria condotta illecita. In definitiva, si è valorizzato il connotato dell'ingiustizia in riferimento alla condotta e non già al danno. e in questi termini si esprimono sia Cass. 6907/09 sia Cass. 22858/08.

In realtà, ancor più che una dilatazione dello spettro dell'ingiustizia della condotta datoriale, parrebbe che la protrazione di una condotta pretestuosa e persecutoria, anche se formalmente legittima, evochi la nota figura dell'abuso del diritto (di solito, del potere disciplinare o di quello direttivo-organizzativo del datore), anch'esso di creazione giurisprudenziale.

IV. - Quasi naturale è stato per la giurisprudenza l'apparentamento della condotta di mobbing e delle sue conseguenze dannose con la categoria del danno esistenziale, di non meno fumosa ed evanescente definizione .

Non è dunque un caso che le sezioni unite della Cassazione abbiano evocato per la prima volta il danno esistenziale proprio con riguardo alle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla dequalificazione professionale del lavoratore per fatto ascrivibile al datore di lavoro , seguite dalla sezione lavoro , sia pure per escluderlo in concreto. e non è mancato il tentativo di circoscrivere l'area di applicabilità del danno esistenziale all'ambito del rapporto di lavoro, giustappunto in virtù del solido aggancio all'art. 2087 c.c..

V. - Il rapporto di lavoro è stato dunque il modello contrattuale sul quale si è esemplato il ragionamento delle sezioni unite in base al quale «se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni».

È esuberante, rispetto a questo modello, il ricorso all'art. 2059 c.c. per l'affermazione della risarcibilità dei danni non patrimoniali, che è norma di rinvio a puntuali disposizioni di legge, perché nel contratto di lavoro v'è già, si è visto, una puntuale disposizione di legge, l'art. 2087 c.c., che annette rilevanza ad interessi non necessariamente suscettibili di valutazione economica, qualificando come inadempiente la condotta che li violi e colorando di antigiuridicità e dunque d'ingiustizia i danni che a questa si riannodino.

La dilatazione dei connotati d'ingiustizia della condotta di mobbing, che ecceda la violazione degli obblighi contrattuali di osservanza dell'art. 2087 c.c. pare, dunque, una creativa invenzione giurisprudenziale, tuttora priva di appigli positivi e sistematici; il danno da mobbing, sub specie di danno esistenziale, sembra invece cristallizzato, come avvertono le sezioni unite, in una dimensione meramente nominalistica, «poiché i danni-conseguenza che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata».

Il problema vero mi sembra allora che riguardi la prova e la quantificazione di questi danni: la prova giacché, pur potendo il giudice far ricorso a presunzioni, occorrerà pur sempre che il danneggiato alleghi tutti gli elementi idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti per inferirne quelli ignoti; la quantificazione, perché essa è ancora priva di parametri certi: non a caso la giurisprudenza dubita di poter far ricorso, per la quantificazione del danno non patrimoniale in generale, alla tabella contenente i criteri per la valutazione delle lesioni micropermanenti nell'ambito della circolazione stradale, né a quella vigente per la valutazione delle lesioni micropermanenti derivanti da infortuni e malattie professionali, per la quantificazione .

Sembra, peraltro, inevitabile attendere qualche prova di resistenza nella giurisprudenza del lavoro in ordine alla sopravvivenza di condotta e danno da mobbing, in considerazione della vischiosità di categorie che tanto bene hanno attecchito in quest'ambito. Segno della vischiosità si può forse leggere appunto nelle sentenze in epigrafe della sezione lavoro, che non sembrano lasciarsi penetrare da dubbi in ordine alla configurabilità della categoria.

È dunque ancora da apprezzare l'impatto delle sentenze delle sezioni unite sul microcosmo del diritto del lavoro.

Fonte: Il Foro Italiano Angelina-Maria Perrino