L'uilizzo processuale delle presunzioni non deve ledere il principio di parità processuale

“Agevolando” la prova considerando come dirimenti delle mere dichiarazioni di parti in causa, si rischia di ledere il principio di parità processuale

Avv Massimiliano Magnanelli

Avv Massimiliano Magnanelli

Senior Associate Lawyer presso Studio Legale Magnanelli and Partners

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Trib. Trento 7 febbraio 2023, n. 20 – Est. Flaim – X (Omissis) c. Y S.p.A. (Omissis) Licenziamento ritorsivo – Onere della prova – Presunzioni semplici – Libero apprezzamento del giudice

Allorquando il lavoratore alleghi che il licenziamento gli è stato intimato per motivo illecito esclusivo e determinante ex art. 1345 c.c., il datore di lavoro non è esonerato dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 L. 15 luglio 1966, n. 604, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; l’indagine in ordine alla sussistenza nonché al carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo dovrà essere condotta successivamente a quella concernente il presupposto giustificativo addotto dalla società datrice a fondamento del licenziamento intimato e solo nell’ipotesi di accertata insussistenza della stessa; diversamente infatti, il motivo ritorsivo non sarebbe, per forza di cose, esclusivo e determinante e quindi non renderebbe nullo il negozio espulsivo.

in ordine alla domanda di accertamento della nullità del licenziamento perché ritorsivo (premessa) Il ricorrente propone domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto avente “natura ritorsiva e comunque illecita”.

Orbene, ad avviso della Suprema Corte il licenziamento per ritorsione costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a lui legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità ex art. 1345 cod. civ. del licenziamento, quando la finalità ritorsiva abbia costituito il motivo esclusivo e determinante dell’atto espulsivo (ex multis, anche di recente, Cass. civ. 15 novembre 2022, n. 33619; Cass. civ. 17 giugno 2020, n. 11705; Cass. civ. 3 dicembre 2019, n. 31527; Cass. civ. 17 gennaio 12019, n. 1195; Cass. civ. 19 novembre 2018, n. 29764; Cass. civ. 3 dicembre 2015, n. 24648; Cass. civ. 18 marzo 2011, n. 6282).

Ne consegue che, allorquando il lavoratore alleghi che il licenziamento gli è stato intimato per un motivo illecito esclusivo e determinante ex art. 1345 cod. civ., il datore di lavoro non è esonerato dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 L. 15 luglio 1966, n. 604, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; quindi l’indagine in ordine alla sussistenza nonché al carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo dovrà essere condotta successivamente a quella concernente il presupposto giustificativo addotto dalla società datrice a fondamento del licenziamento intimato e solo nell’ipotesi di accertata insussistenza della stessa; diversamente, infatti, il motivo ritorsivo non sarebbe, per forza di cose, esclusivo e determinante e quindi non renderebbe nullo il negozio estintivo.

In definitiva, l’indagine in ordine alla sussistenza nonché al carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo addotto dovrà essere condotta successivamente a quella concernente il presupposto giustificativo posto dalla società datrice a fondamento del licenziamento ) e solo nell’ipotesi di accertata insussistenza dello stesso (diversamente, infatti, il motivo ritorsivo non sarebbe, per forza di cose, esclusivo e determinante e quindi non renderebbe nullo il negozio estintivo).

In ordine alla domanda di annullamento del licenziamento de quo per difetto della giusta causa Il ricorrente propone (in via subordinata) domanda di annullamento del licenziamento de quo per difetto della giusta causa, in ragione dell’ “insussistenza del fatto materiale contestato”, chiedendo l’applicazione della tutela ex art. 3 co. 2 D.L.vo n. 23 del 2015.

al di fine di accertare se sussista in concreto una giusta causa di licenziamento, la valutazione dell’inadempimento deve avvenire in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza dettata dall’art. 1455 cod. civ.

Come si è già in parte ricordato, secondo un ormai consolidato orientamento della Suprema Corte la contestazione disciplinare “cristallizza” le doglianze della parte datrice nel senso che la sua immutabilità – la quale trova la sua ratio nell’esigenza di garantire effettivamente il diritto di difesa del lavoratore che verrebbe irrimediabilmente leso qualora il licenziamento venisse fondato su addebiti diversi da quelli contestati – preclude al datore di lavoro di far valere, a sostegno delle sue determinazioni disciplinari (qual è il licenziamento), circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione disciplinare.

In proposito la Suprema Corte (Cass. civ. 24 luglio 2018, n. 19632) ha statuito che in tema di licenziamento disciplinare, ove la contestazione sia stata formulata in maniera generica per una parte dell’addebito, è corretto l’operato del giudice di merito che abbia valutato, ai fini della verifica circa la legittimità, o meno, della sanzione, solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto dei fatti genericamente indicati.

Inoltre è ormai consolidato (Cass. civ. 24 febbraio 2020, n. 4879; Cass. civ. 14 dicembre 2016, n. 25745) l’orientamento secondo cui il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui all’art. 18 comma 4 Statuto dei Lavoratori.

Ne consegue che nell’ipotesi di contestazione, quale quella in esame, priva del necessario requisito di specificità, non ricorre l’ipotesi del vizio procedurale ex art. 4 D.L.vo n. 23 del 2015, ma quella dell’insussistenza del fatto materiale contestato ex art. 2 co. 2 d.lgs.cit.

A questo punto è opportuno evidenziare che secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte l'onere di provare che la ritorsione ha costituito il motivo unico e determinante del licenziamento può essere assolto dal lavoratore (su cui quell’onere grava) anche mediante presunzioni.

Va pure ricordato che l’esistenza di un fatto ignoto (qui la volontà della società datrice di reagire, mediante il licenziamento del ricorrente, una volta che questi si era rifiutato di acconsentire alla richiesta, a lui formulata dal direttore generale della società datrice D., di rassegnare le dimissioni) può ritenersi provata per presunzione ex art. 2729 cod.civ. qualora sia stata compiutamente accertata in via diretta l’esistenza di un fatto storico dotato di gravità, precisione e concordanza nella direzione del fatto ignoto. In proposito secondo concorde dottrina e giurisprudenza : la gravità allude a un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto, è probabile che si sia verificato il fatto B; non è, invece, necessario che l’inferenza conduca a valutazioni in termini di certezza); la precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, a un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti; la concordanza esprime un requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sé considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori, volendo esprimere l’idea che, intanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

«una volta accertata la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rettamente il giudice di merito ritiene superfluo l’esame della domanda tendente alla declaratoria di nullità del licenziamento perché adottato a fini discriminatori»; nel caso di controversia concernente la legittimità del licenziamento di un lavoratore sindacalmente attivo, per affermare il carattere – e quindi la nullità del provvedimento espulsivo – occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento ritorsivo e/o di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso)

L’orientamento prevalente, senz’altro rispettoso delle regole processuali, ha sempre posto in capo al lavoratore la dimostrazione del carattere unico e determinante di un motivo rigidamente ancorato al piano psicologico o animus vindicandi).

Sotto un profilo squisitamente processualistico, infatti, il codice di rito afferma che il lavoratore che adduca l’esistenza di un motivo illecito o fraudolento per invalidare un provvedimento espulsivo posto in essere dal datore di lavoro, ha l’onere di dimostrare tale motivo

. Sicché, stando alle regole processuali, non dovrebbe essere il datore di lavoro (convenuto) a dover comprovare una giustificazione necessaria, bensì il lavoratore (attore) a dover dimostrare il motivo illecito, ovvero la natura ritorsiva dell’atto invocato a sostegno della propria pretesa.

Onere, questo, ancor più arduo, se si tiene conto di quella giurisprudenza che vorrebbe la dimostrazione sia dell’oggettiva idoneità lesiva del bene protetto, che del motivo illecito determinante ..

Tuttavia, nonostante si ritenga che l’azione di impugnazione del licenziamento produca automaticamente sull’attore (i.e. il lavoratore) l’onere di dimostrare che trattasi di licenziamento ritorsivo – anche, si pensi, quale mero fatto costitutivo della domanda al giudice – in questa annotazione non si vuole certo sminuire che la prova di una siffatta ritorsione possa risultare assai ardua per un prestatore di lavoro, in quanto il motivo illecito attiene anche al momento della formazione della volontà piuttosto che alla sua esternazione, potendo questa presentare connotazioni formalmente legittime .

Questa è la ragione per cui l’ordinamento prevede l’uso delle presunzioni hominis o facti o semplici che dir si voglia, ex art. 2729 c.c., a supporto proprio della parte attorea pur evidenziandone l’uso prudente che dovrebbe farne il magistrato riguardo il loro utilizzo. In effetti, vigono delle regole basiche – queste non legate a prudenza – che informano il sistema processuale alla distinzione di elementi costitutivi, indispensabili per la produzione dell’effetto perseguito dall’attore con il conseguente onere probatorio a suo carico, da altri elementi che costitutivi non sono, e assumono rilevanza solo eventuale

È quindi ragionevole affermare che nella decisione abbiano giuocato un ruolo determinante proprio le presunzioni semplici, sopra richiamate. Se teniamo a mente che la loro caratteristica essenziale è quella di non incidere in alcun modo sull’oggetto o sulla distribuzione dell’onere della prova, ma di essere prove “critiche”, ovvero non direttamente rappresentative di un fatto ma fondate su di un procedimento logico attraverso il quale si risale da un fatto noto ad un fatto ignoto, potremmo ben dire che siamo dinnanzi ad un tipico espediente per l’assolvimento dell’onere probatorio, anche indirettamente (giustificato, chiaramente, dal fatto che siamo dinanzi a oneri probatori assai complicati, per entrambe le parti).

Ai fini dell’annotazione interessa sottolineare come, in base ad una serie importante di principi giurisprudenziali non sempre condivisibili ,l’orientamento per cui «la prova per presunzione, non essendo relegata dall’ordinamento in una posizione inferiore alle altre prove, è sufficiente a sorreggere anche da sola il convincimento del giudice» è affermato ormai di sovente in giurisprudenza, si riconosce al giudice di merito un’ampia discrezionalità nel fondare il proprio convincimento su illazioni che finiscono, così, per essere talvolta utilizzate come uno strumento atto ad invertire – anche in via indiretta – l’onere di prova .

Accade, infatti, che per alleviare il soggetto onerato di una prova particolarmente ardua, il giudice affermi di essersi convinto in virtù di discutibili, e non sempre rispondenti ai requisiti fissati dall’art. 2729 c.c., presunzioni semplici, in tal modo gravando dell’onere della prova contraria l’altra parte.

Da qui si ingenerano tutta una serie di riflessioni che non possono essere approfondite in questa sede, seppur riguardanti aspetti molto importanti e delicati, quali la c.d. prova negativa .

Volendoci attestare alla mera tecnica processuale utilizzata, questo fenomeno esula dal tema della ripartizione degli oneri probatori (seppur poi li supera), rientrando nella problematica del libero convincimento del giudice secondo quel «prudente apprezzamento» richiamato nell’art. 116, comma 1, c.p.c.

Tant’è che salvo il controllo sulla logicità della motivazione, viene riconosciuta l’incensurabilità diretta da parte della Cassazione del risultato di siffatte operazioni del giudice di merito, dovendo evidenziare, piuttosto, la necessità di assicurare il rispetto del principio dispositivo e del contraddittorio sui fatti secondari indizianti come indefettibili garanzie procedimentali controllabili anche in sede di legittimità ex art. 360, n. 4, c.p.c.

In sostanza, quindi, con riferimento alla vicenda, alla richiesta di escussione del testimone (nella specie colui che aveva invitato il lavoratore a dimettersi), la convenuta, secondo l’iter argomentativo del giudicante trentino, non provando le sue di ragioni e/o le sue affermazioni, ha lasciato al giudice ampi margine di apprezzamento. In questo caso, l’iter del giudicante non si è discostato da quel filone giurisprudenziale per cui, quando il lavoratore lamenti un licenziamento ritorsivo, il datore di lavoro non è esonerato dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 L. n. 604 del 1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento.

Questo incastro probatorio rende l’indagine sul carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo come secondaria rispetto a quella primaria che il giudice compie in merito alla giustificatezza del licenziamento.

Nel caso di prova del licenziamento, come non è avvenuto nel caso di specie, la presunta ritorsione cadrebbe e dunque verrebbe confermato – nei limiti dei fatti in causa – il negozio estintivo

Se è vero da un lato che l’orientamento recente spinge nel verso di questa segmentazione/classificazione probatoria per cui prima si indaga sulla giustificatezza del licenziamento poi si indaga sulla ritorsione, è altresì vero, dall’altro lato, che rimane l’esigenza di scandagliare l’esistenza stessa della ritorsione e, con riferimento al caso annotato, non dovrebbe considerarsi come sufficientemente probante un mero dato dichiarativo, anche se non palesemente smentito, dovendo la parte in causa dimostrare le sue lagnanze, non solo affermarle.

In difetto si opererebbe – anche solo involontariamente – una doppia tutela alla parte debole del rapporto: quella sostanziale (prevista dall’ordinamento) e quella processuale (non prevista dall’ordinamento, in questo specifico caso di licenziamento).

Il motivo di una simile affermazione risiede negli orientamenti del Giudice delle leggi. È fuor di dubbio, infatti, che il potere di licenziamento del datore di lavoro, come ebbe a rilevare un’ormai datata pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost. 27 gennaio 1958, n. 7, in Foro It., 1958, 1, col. 844), è limitato, non costituendo più, come noto, un principio generale del nostro ordinamento.

Uno di questi limiti è certamente rappresentato dal motivo illecito determinante, più specificatamente esso delinea un limite interno al potere di recesso del datore di lavoro durante il rapporto di lavoro.

Ragione questa che ci conduce a identificare il motivo illecito con lo scopo cui fa riferimento l’art. 1345 c.c. Scopo che ha un’efficacia determinate della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un provvedimento legittimo e che determina, se confortato da elementi obiettivi e subiettivi, la nullità dell’atto di recesso

Occorrerebbe domandarsi però, con riferimento al caso che ci occupa, se lo scopo era davvero quello, rispetto a parole dichiarate in un alterco, oppure riflettere attentamente sulla possibilità di ricavare uno scopo da mere presunzioni semplici o, addirittura, dare a queste rilevanza dirimente rispetto alla decisione, stante anche la comune considerazione che esse dovrebbero essere sussidiarie rispetto agli oneri probatori previsti dai principi basici del diritto processuale. Dubbi non avrebbero occasione di esistere se, invece, gli elementi probanti addotti dal lavoratore che voglia portare in giudizio il proprio datore di lavoro, fossero stati non astratti e generici, ma tali da far ritenere la reale sussistenza di un rapporto di causalità fra le circostanze avvenute e l’asserito intento di ritorsione

Questioni di merito e processuali relative all’impugnazione del licenziamento determinato da attività sindacale , in rispetto di quell’antico brocardo per cui actore non probante, reus absolvitur, o ancor meglio a quello per cui actore non probante, qui convenitur, etsi nihil ipse praestat, obtinet.( Se l'attore non prova ciò che dice, chi è convenuto ottiene soddisfazione, anche se non allega alcunché)

Ci si sente di affermare in questa sede, dunque, che “agevolando” la prova al punto da prendere come dirimenti delle mere dichiarazioni di parti in causa, senza che esse siano avvalorate da fondamenti probanti dotati di una certa rilevanza all’interno di un processo, si rischia di ledere i principi basici del rito processuale civile, primo fra tutti quello della parità processuale.

In più di un’occasione, del resto, è stata apertamente riconosciuta anche dalla Corte costituzionale la piena legittimità degli oneri probatori gravanti sul lavoratore nonostante la già ricordata difficoltà ad assolverli

. E così l’esigenza di protezione della parte debole troverebbe, rectius, trova ristoro, nella disciplina sostanziale, mentre le regole del gioco processuale dovrebbero essere, come in effetti sono, identiche per entrambi i contendenti, secondo i principi fondamentali di parità di strumenti nel processo (artt. 111 Cost. e 6 CEDU, ma anche artt. 3 e 24 Cost.).

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Non avrebbero occasione di esistere dubbi sull'onere probatorio se, gli elementi probanti addotti dal lavoratore che voglia portare in giudizio il proprio datore di lavoro per la impugnazione di un licenziamento ritorsivo , fossero non astratti e generici, ma tali da far ritenere la reale sussistenza di un rapporto di causalità fra le circostanze avvenute e l’asserito intento di ritorsione. Le questioni di merito e processuali relative all’impugnazione del licenziamento determinato da attività sindacale , devono comunque rispettare l’antico brocardo per cui actore non probante, reus absolvitur, o ancor meglio a quello per cui actore non probante, qui convenitur, etsi nihil ipse praestat, obtinet. .( Se l'attore non prova ciò che dice, chi è convenuto ottiene soddisfazione, anche se non allega alcunché) non onerando il datore di lavoro della prova di una causa giustificativa; onere non previsto processualmente con conseguente lesione del principio di parità processuale.