
Il danno alla professionalità per inattività lavorativa in presenza di una illegittima sospensione in CIGS
ORDINANZA
Cass. Civile Ord. Sez. L Num. 10267 Anno 2024
Il datore lamenta che la Corte d'appello ha riconosciuto il danno alla
professionalità alla lavoratrice da inattività forzata richiamando una giurisprudenza
riferita alla diversa violazione dell'art. 2103 c.c. ;
mentre nel caso di specie non saremmo in presenza di una
inattività forzata, bensì dinanzi ad una sospensione in Cigs;
non di inadempimento contrattuale si tratta ma semmai di
una violazione di legge, il cui danno non può che essere
rappresentato in via esclusiva dall'elemento pecuniario
costituito dalla differenza tra la retribuzione piena e
l'integrazione salariale ricevuta; in ogni caso mancherebbe la
prova del danno ed inoltre la Corte ha ritenuto di procedere in
assenza di un danno accertato o in presenza di un danno in re ipsa
ad una liquidazione equitativa del danno sostenendo che la lavoratrice
fosse stata lasciata forzatamente inattiva per oltre 10 anni dal 2007 al 2016,
mentre l'oggetto dell'accertamento della sentenza riguardava
esclusivamente il ben più limitato periodo dal 15/01/2013 al
09/06/2016 ovvero tre anni e mezzo e non oltre 10 anni.
Sul punto della liquidazione del danno la sentenza
impugnata ha affermato, riformando la pronuncia di primo
grado, che fosse da riconoscere alla lavoratrice il danno alla
professionalità, da valutarsi e quantificarsi in via equitativa,
in misura pari ad un 30% della retribuzione netta mensile
spettante alla stessa in costanza di rapporto (come da ultima
busta paga percepita prima dell'ammissione a CIGS).
Tanto la Corte di merito h aaccertato motivatamente e sulla
base degli arresti di questa Suprema Corte che da tempo
hanno evidenziato, in presenza di adeguate allegazioni,
l'esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata,
poiché il fatto di non aver potuto esercitare la propria
prestazione professionale, oltre alle l'immagine professionale,
può ledere professionalmente il lavoratore dal momento che
una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento
del patrimonio professionale
La Corte d'appello ha in particolare richiamato per esteso la
sentenza della Corte di Cassazione n. 10/ 2002 riferita
ad un lavoratore che era stato lasciato in condizioni di
inattività per lunghissimo tempo ed in cui la Corte ha
affermato che il comportamento datoriale non solo violava la
norma di cui all'articolo 2103 c.c. ma era al tempo stesso
lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto
come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun
cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del
dipendente ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio
delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; con
tale affermazione il giudice d'appello ha enunciato un
concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza
quale è la dignità professionale del lavoratore, intesa come
esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie
capacità nel contesto lavorativo, ed ha ritenuto che tale
lesione produca automaticamente un danno non economico
ma comunque rilevante sul piano patrimoniale per la sua
attinenza agli interessi personali del lavoratore, anche se
determinabile necessariamente solo in via equitativa.
Ha poi richiamato le successive sentenze nn. 2763/2003 e
7963/ 2012 sempre tutte pronunciate in relazione a domande
proposte ex art. 2103 c.c. ma pur sempre relative a
comportamenti datoriali illegittimi che hanno lasciato in
condizione di inattività i dipendenti, sentenze che hanno
ribadito le medesime affermazioni precedentemente
richiamate.
Infine la Corte d'appello ha affermato che nel caso specifico
la lavoratrice fosse stata lasciata forzatamente inattiva per
almeno oltre 10 anni, né era stata mai chiamata a frequentare
corsi formativi propedeutici per farla rientrare al lavoro
e ciò ne aveva cagionato necessariamente il depauperamento
della sua professionalità.
Ha invece disatteso la domanda relativa agli altri danni
lamentati, biologico morale ed esistenziale.
Tanto premesso, si osserva che i il danno da inattività per Cigs
non è differente da quello relativo all’inattività che discende dalla
violazione dell'art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o
altri illeciti simili; ovvero l’uno sia di natura legale e l'altro di natura
contrattuale.
Al contrario la responsabilità del datore di lavoro che lasci
inattivo il lavoratore in violazioni di disposizioni di legge o
contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione
o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle
mansioni) risulta in ogni caso discendente dalla violazione di
obblighi che discendono da norme che integrano il contratto
di lavoro e dunque configura sempre una forma di responsabilità
di natura contrattuale.
Né si intuisce perché la fattispecie produttiva di
responsabilità e di danno debba essere differente se
l’illegittima inattività si produca nel corso dell’esecuzione del
rapporto o in seguito ad illegittima sospensione ( o anche
estinzione) del rapporto; posto che il danno che viene in
rilievo è comunque un danno di natura professionale che si
correla alla mancata esecuzione della prestazione, anche in
base ad una regola presuntiva, che è poi quella che è stata
posta dalla Corte d'appello alla base della liquidazione del
danno.
Il danno alla professionalità – per sua natura plurioffensivo
- richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d'appello è
ovviamente un danno diverso dalla mancata percezione della
retribuzione per illegittima collocazione in cig; essendo il
primo legato appunto alla perdita della professionalità,
dell’immagine professionale e della dignità lavorativa,
e il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e
deriva dalla mancata corresponsione e percezione della
retribuzione derivante dal contratto.
Il danno patrimoniale alla professionalità per giurisprudenza
consolidata può inoltre essere liquidato prendendo a
riferimento una quota della retribuzione che nella fattispecie
la Corte di merito ha individuato nella misura del 30%;
escludendo invece il danno esistenziale, morale e biologico
per difetto di adeguata allegazione e prova.
Ciò la Corte territoriale ha fatto attraverso un accertamento
del tutto in linea con la giurisprudenza prevalente sia sull’an, sia sulla prova,
sia sul quantum (v. Cass.19923/2019).
Occorre infatti considerare che, ai fini della dell’esistenza e
della prova anche presuntiva del danno alla professionalità
(anche da demansionamento e dequalificazione professionale),
costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti
la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta ,il tipo e la
natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento,
la diversa e nuova collocazione lavorativaassunta dopo la prospettata
dequalificazione (Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652
del 2009; n. 29832 del 2008).