Studio Legale Magnanelli and partners

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Docente presso Ascheri Academy

 

Civile Sent. Sez. L Num. 7272 Anno 2024

 

La Suprema Corte si è già occupata in più occasioni dei c.d.

controlli difensivi del datore di lavoro, molto spesso collegati al tema

delle indagini sull’uso, da parte del dipendente, di strumenti per la

navigazione in internet e per la comunicazione telematica in ambito

lavorativo (v., tra le altre, Cass. nn. 13266/2018; 25731/2021;

25732/2021; 34092/2021; 18168/2023).

 

Tale giurisprudenza si è fatta carico del problema di assicurare un corretto bilanciamento tra

le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa

economica, e le imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore,

affermando, tra l’altro, il principio che il controllo «difensivo in senso stretto» deve essere

«mirato» ed«attuato ex post», ossia «a seguito del comportamento illecito di uno

o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il

fondato sospetto».

 

L'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, dopo le modifiche introdotte dal d.lgs.

n. 151 del 2015 e dal d.lgs. n. 185 del 2016, non prevede più un

divieto assoluto, per il datore di lavoro, di effettuare il controllo a

distanza dell’attività dei lavoratori, indicando – al comma 1 – gli

scopi per cui e le condizioni alle quali i controlli possono essere

effettuati. In ogni caso, tali limiti non si applicano, tra gli atri, «agli

strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione

lavorativa» (comma 2), fermo restando che l’utilizzabilità delle

informazioni acquisite «a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro» è

subordinata alla «condizione che sia data al lavoratore adeguata

informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione

dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo

30 giugno 2003, n. 196» (comma 3).

 

La Corte territoriale ha quindi ritenuto legittimi i controlli

effettuati dall’I.N.P.S. sugli accessi del suo dipendente alla banca

dati, rilevando che si tratta dei «c.d. controlli difensivi», finalizzati –

non a verificare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa,

ma – ad accertare «condotte illecite lesive del patrimonio aziendale

ovvero pericolose per la sicurezza del luogo di lavoro». Quanto alla

adeguata informazione al lavoratore, si è ritenuta sufficiente la prova

che, al momento di ogni accesso, il sistema produceva un banner

contenente l’avvertimento che «l’accesso alle banche dati è

consentito esclusivamente per fini istituzionali» e che un uso

difforme avrebbe comportato sanzioni disciplinari.

 

Inoltre, la Corte d’Appello ha ritenuto che la fattispecie in

esame sia da considerare «estranea al campo di applicazione dell’art.

4 dello Statuto [dei Lavoratori]», perché l’I.N.P.S. avrebbe effettuato

i suoi accertamenti solo «ex post, ovvero dopo aver avuto notizia

della perpetrazione del comportamento contestato al dipendente».

 

 

Con la citata giurisprudenza si è confrontata, nella sentenza

impugnata, la Corte d’Appello , intendendo darvi seguito.

 

A tal fine ha accertato che il lavoratore era stato preventivamente

informato «delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei

controlli» e che gli accertamenti erano stati eseguiti solo ex post,

ovverosia dopo la segnalazione, da parte della «Direzione Centrale

Risorse Umane I.N.P.S.», del numero anomalo di accessi informatici

effettuati con le credenziali del ricorrente.

 

Apparentemente l’argomentazione della Corte d’Appello

è criticabile (ed è stata, infatti, criticata dal ricorrente), perché, da

un lato, l’informazione sulle «modalità … di effettuazione dei

controlli» è cosa ben diversa dall’informazione sull’illeceità e sulla

sanzionabilità di un comportamento (tale essendo l’indicazione

contenuta nel banner valorizzato dalla Corte territoriale); dall’altro

lato, la segnalazione della «Direzione Centrale Risorse Umane

I.N.P.S.», non è una segnalazione esterna, bensì interna allo stesso

Istituto, che quindi aveva già effettuato controlli sull’anomalia degli

accessi alla banca dati quando fu effettuata la segnalazione.

Tuttavia, tali aspetti si rivelano irrilevanti, perché il caso qui in

esame è sensibilmente diverso rispetto a quelli affrontati nei citati

precedenti, che sono incentrati sul bilanciamento tra «esigenze di

protezione di interessi e beni aziendali» e «imprescindibili tutele della

dignità e della riservatezza del lavoratore».

 

In questo caso, i controll ipreventivi effettuati dall’I.N.P.S. non solo non erano finalizzati

al controllo dell’adempimento della prestazione del lavoratore, ma

nemmeno erano volti alla «protezione di interessi e beni aziendali».

L’I.N.P.S., infatti, quale gestore e responsabile della banca dati in cui

sono racchiuse informazioni riservate che riguardano i soggetti

iscritti, ha effettuato i doverosi controlli preventivi sugli accessi a

tutela delle persone interessate alla corretta gestione di quei dati.

 

La tutela della privacy viene sicuramente in rilievo nel caso di specie,

ma si tratta della privacy delle persone che sono iscritte a vario titolo

all’I.N.P.S. e inserite nella banca dati, non quella del lavoratore

dipendente, di cui non è stato attinto alcun dato personale, se non

quello, appunto, dell’accesso non autorizzato alla banca dati.

 

Nel caso di specie, invece, i controlli automatici effettuati

dall’I.N.P.S., all’esito dei quali si è sostanziato il fondato sospetto di

un illecito disciplinare, da un lato, erano volti alla doverosa tutela di

soggetti terzi (gli interessati, le cui informazioni personali sono

inserite nella banca dati); dall’altro lato, non hanno comportato

alcuna indagine sulle abitudini, sui gusti e sulle comunicazioni del

lavoratore dipendente.

 

Non era quindi obbligatoria alcuna comunicazione preventiva

al dipendente del fatto che l’I.N.P.S. esercita un doveroso controllo

– non sull’operato dei propri dipendenti, ma – sulla regolarità degli

accessi alla banca dati di cui è responsabile, né tale controllo rientra

tra i controlli difensivi «in senso stretto», che il datore di lavoro può

adottare a tutela dei propri «interessi e beni aziendali», alle

condizioni indicate nella giurisprudenza citata.