
Licenziamento nullo – Effetti – Tutela reintegratoria “piena” – Risarcimento –Detraibilità dell’aliuende percipiendum.
Avv Massimiliano Magnanelli
Senior Associate Lawyer presso Studio Legale Magnanelli and Partners
App. Brescia 2 febbraio 2023, n. 328 – Pres. ed Est. Matano – S.V. c. S. S.r.l.
Dalla misura del risarcimento del danno dovuto alla lavoratrice, il cui licenziamento viene dichiarato nullo perché riconducibile ad un motivo illecito unico e determinante, occorre detrarre, in applicazione del principio di cui all’art. 1227,comma 2 c.c., anche l’aliunde percipiendum, laddove la stessa non si sia impegnata con l’ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione.
La prova dell’inerzia del lavoratore nel reperire una nuova occupazione dopo il licenziamento può essere data anche facendo riferimento a fatti notori, ad esempio dalle condizioni del mercato del lavoro in Lombardia che offrono frequentemente nel settore del terziario buone occasioni di lavoro, oltre che da presunzioni, quali,ad esempio, l’essere già stato inerte, in passato, nella ricerca di nuova occupazione dopo il licenziamento.
Con sentenza n. 585/21 il Tribunale di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, per quanto ancora di interesse, accertava la nullità del patto di prova apposto al contratto di assunzione stipulato tra S. V. e S. S.r.l., in quanto sottoscritto dopo che il rapporto di lavoro era stato difatto instaurato ormai da qualche mese; dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato il 10.4.2019 per mancato superamento del periodo di prova e, in applicazione degli artt. 3, co. 1, e 9, co. 1, D.Lgs. n. 23 del 2015 (pacifico essendo il mancato raggiungimento del requisito dimensionale), dichiarava estinto il rapporto di lavoro e condannava la società al pagamento di un’indennità pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, oltre accessori.
La sentenza riteneva infondata la domanda di accertamento della natura ritorsiva del licenziamento e inoltre respingeva la domanda di risarcimento del danno per mancato percepimento della Naspi, conseguito al fatto che il rapporto era stato regolarizzato solo nel periodo29.3.2019 / 10.4.2019 e che mancava quindi il requisito delle 30 giornate di lavoro effettivo nei12 mesi antecedenti il periodo di disoccupazione.
Con particolare riferimento alla nullità del patto di prova, il Tribunale accertava che nel periodo 26.11.2018/28.3.2019 precedente la formale assunzione, la lavoratrice aveva lavorato in forza di rapporto subordinato alle dipendenze della società con mansioni di addetta commerciale; conseguentemente, era nullo il patto di prova apposto al contratto di stipulato il 29.3.2019 per lo svolgimento di mansioni di impiegata commerciale liv. A2 CCNL metalmeccanici artigiani.
Quanto alla pretesa natura ritorsiva del recesso, riteneva che le risultanze istruttorie non avevano confermato che il recesso era stato una reazione alle iniziative assunte dalla lavoratrice a difesa del personale dell’azienda.
Con riferimento al risarcimento danni per perdita della Naspi, affermava che la mancata regolarizzazione del rapporto sin dall’inizio non era dipesa da unilaterale volontà della società, tenuto conto che la S. non aveva mai sollecitato la regolarizzazione del rapporto e,anzi, quando l’azienda di era attivata in tal senso, aveva rifiutato l’assunzione, salvo poi accettarla alle medesime condizioni; inoltre si era presentata a un cliente della società come libera professionista e aveva preteso che la propria retribuzione venisse inserita nella busta paga del compagno R.M.
Infine, l’inerzia mostrata dalla ricorrente (che già in Naspi dall’11.11.2016 non risultava si fosse attivata per reperire una nuova occupazione), non poteva essere messa a carico della società resistente.
S. V. proponeva appello chiedendo di riformare la sentenza, in primo luogo, nella parte in cui non aveva condannato la società al versamento dei contributi previdenziali per il periodo di lavoro non regolarizzato; in secondo luogo, nella parte in cui non aveva accertato la natura ritorsiva del licenziamento e comunque, anche ritenendo solamente illegittimo il licenziamento, non aveva ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro; in terzo luogo, nella parte in cui aveva respinto la domanda di risarcimento danni per mancata per mancata percezione della Naspi.
La società si costituiva chiedendo il rigetto dell’appello. Si costituiva anche l’INPS chiedendo di dichiarare l’esistenza dell’obbligo contributivo.
Con il primo motivo, la lavoratrice lamenta che il primo giudice, dopo aver dichiarato la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato nel periodo dal 26.11.2018 al 28.3.2019 (giorno precedente a quello della formale assunzione) non abbia condannato la società al versamento dei contributi previdenziali.
A prescindere da ogni altra possibile considerazione circa la effettiva necessità per il giudice che accerta la sussistenza di un rapporto di lavoro di condannare il datore di lavoro al versamento all’INPS dei contributi omessi, la società appellata ha dimostrato (docc. 4 e 5 fascicolo d’appello) di aver versato le somme a tale titolo dovute all’Inps, il quale ha provveduto a regolarizzare la posizione contributiva della lavoratrice. Nulla vi è quindi da provvedere in proposito.
Con i motivi da due a cinque l’appellante censura la decisione del Tribunale di non ritenere provata la natura ritorsiva del licenziamento. In primo luogo (motivo 2), censura i provvedimenti istruttori con i quali il giudice non ha ammesso l’esame testimoniale del lavoratore diS.A. (fondamentale per confermare le circostanze che misero in contrasto la lavoratrice conM.E., legale rappresentante della società) per il solo fatto che lo S. aveva proposto un giudiziocontro la società, nonché (motivo 3) la decisione di non ammettere gran parte dei capitoli diprova volti a dimostrare la rappresaglia del M. in conseguenza delle iniziative prese dalla lavoratrice a tutela dei lavoratori.
Lamenta poi (motivo 4) la mancata acquisizione ex art. 421 c.p.c. di una chiavetta USB contenente una serie di conversazioni audio e Whatsapp intercorse con il M. (tra cui quella avvenuta due giorni prima del licenziamento relativa ad un episodio cheriguardava il lavoratore S. e che pure costituiva oggetto di un capo di prova).
Nel merito (motivo 5) sostiene che comunque le risultanze istruttorie consentono in ogni caso di ritenere raggiunta la prova del motivo illecito unico e determinante ex art. 1345 cod. civ.del licenziamento.
In tal senso, osserva che il motivo del licenziamento (mancato superamentodel periodo di prova) è palesemente insussistente, atteso che la formale assunzione è avvenuta dopo ben quattro mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, durante i quali il M. (come pure espressamente affermato dal primo giudice) aveva positivamente sperimentato capacità e personalitàdella lavoratrice, tanto da decidere di procedere alla regolarizzazione del rapporto.
La prova del motivo illecito emerge dal complesso delle testimonianze, essendo risultato che lalavoratrice si era fatta portavoce di una serie di lamentele avanzate dai dipendenti della societàe pochi giorni prima del licenziamento aveva preso le difese del lavoratore S. insultato dal M.,cosicché il licenziamento appare essere la ritorsione del M. alle iniziative della lavoratrice.
Il quinto motivo è fondato (circostanza che consente di ritenere assorbiti i motivi da due a quattro).
É pacifico che, una volta accertato che il rapporto di lavoro è stato instaurato sin dal 26.11.2018,è nullo il patto di prova apposto al contratto di assunzione stipulato il 29.3.2019. Infatti, secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, “la forma scritta, necessaria a norma dell’art. 2096 cod. civ. per il patto di prova, è richiesta “ad substantiam”, e tale essenziale requisito di forma, la cui mancanza comporta la nullità assoluta del patto di prova, deve sussistere sin dall’inizio del rapporto, senza alcuna possibilità di equipollenti o sanatorie” (Cass. 16214/16; nello stesso senso: Cass. 11405/13, Cass. 16806/11, Cass. 21758/10).
Ne deriva, per ciò solo, l’illegittimità del licenziamento motivato con il mancato superamento del periodo di prova, questione che in mancanza di appello incidentale è ormai coperta dal giudicato.
Oggetto del gravame è la sussistenza del motivo illecito unico e determinante ex art.1345 cod. civ. e, quindi, la natura ritorsiva del licenziamento, il cui onere probatorio incombesul lavoratore.
Infatti, secondo il costante orientamento della Suprema Corte (cfr., tra le altre ,Cass. 10047/04 e Cass. 18283/10), l’onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro.
Affinché, il licenziamento possa dirsi adottato per motivo illecito determinante ex art. 1345 cod. civ., occorre che il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, per cui la nullità deve essere esclusa se con lo stesso concorra un motivo lecito, come una giusta causa (art. 2119 cod. civ.) o un giustificato motivo (ex art. 3 L. n. 604 del 1966).
Come chiarito daCass. 23583/19, “il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.
L’esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale. Il giudice, una volta riscontrato che il datore di lavoro non abbia assolto gli oneri su di lui gravanti e riguardanti la dimostrazione del giustificato motivo oggettivo, procede alla verifica delle allegazioni poste a fondamento della domanda del lavoratore di accertamento della nullità per motivo ritorsivo”.
In sostanza, la verifica dei fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del recesso, che risulti solo allegata dal datore, ma non provata in giudizio, poiché la nullità per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ. richiede che questo abbia carattere determinante e che il motivo addotto a sostegno del licenziamento sia solo formale e apparente (in tal senso Cass. n. 9468 del 2019).
Con particolare riferimento alla natura ritorsiva del licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova, occorrerà quindi che il lavoratore provi che il recesso non è ricollegabile all’esperimento della prova e al suo esito (ossia, dovrà provare che la prova era stata superata) e che è stato dovuto a ragioni del tutto estranee alla causa del patto di prova, così da costituire motivo illecito esclusivo e determinante.
Nel caso di specie, la lavoratrice ha allegato che il motivo del licenziamento è la reazione diM.E., legale rappresentante, ad una serie di iniziative da lei prese a favore dei dipendenti della società e, in particolare, la difesa del lavoratore S.A.
Ora, la prova del positivo superamento del periodo di prova può senz’altro ritenersi acquisita.
Come già rilevato dal primo giudice, le numerose mail inviate dal M. alla lavoratrice e le conversazioni a mezzo messaggi Whatsapp intercorse tra i due (si tratta di conversazioni trascritte e tempestivamente depositate in giudizio ,diverse da quelle contenute nella chiavetta USB non ammessa dal primo giudice) dimostrano che sin dal novembre 2018 la S. lavorava a stretto contatto con il M., dal quale riceveva le tabelle contenenti le ore svolte dagli operai, la documentazione riguardante i rilievi dei siti dove dovevano essere eseguiti i lavori; interagiva costantemente con il M., sia per la ricerca di nuovi clienti, che per la soluzione di problematiche varie relative agli operai da inviare in trasferta; si confrontava con il M. ricevendo indicazioni sui prezzi da fare o sul numero degli operai necessari in cantiere.
Invero, il primo giudice, valutando le numerose conversazioni Whatsapp tra ilM. e la S. (relative alla predisposizione della bozza di un preventivo, alla verifica circa la correttezza delle buste paga del personale, ai punti da trattare in una lettera, alla ricerca di un furgone, all’invio di offerte, all’esame di insoluti, alla gestione degli operai in cantiere), ha correttamente osservato che da tali documenti traspare, da un lato, la sicurezza ed esperienza della lavoratrice, dall’altro, la grande fiducia del M. nella lavoratrice.
Nello stesso senso, va ricordato che proprio grazie all’opera della S., la società datrice di lavoro venne messa in contatto con un cliente (A.C.s.r.l.) con il quale venne acquisita un’importante commessa da P.I. per l’installazione di impianti elettrici presso gli uffici postali (teste C.).
Del resto, la stessa sentenza appellata ha affermato che dal tenore delle mail e delle conversazioni whatsapp emerge che nel periodo irregolare ilM. aveva ampiamente sperimentato le capacità della S. rispetto a mansioni che sono rimaste immutate anche nel periodo regolare.
Se a tali elementi si aggiunge la lunga durata del periodo irregolare (4 mesi), si può fondatamente affermare che, allorquando il M. decise di assumere formalmente la S., aveva già favorevolmente valutato la capacità e la personalità della lavoratrice, tenuto anche conto tenuto conto che l’assunzione è avvenuta per lo svolgimento delle medesime mansioni già svolte neiprecedenti quattro mesi.
E invero, ciò che caratterizza la fattispecie è la accertata sussistenzadi rapporto di lavoro per lo svolgimento delle medesime mansioni di impiegata commerciale durato per un periodo di ben 4 mesi prima della formale assunzione.
Insomma, si vuole sottolineare che nel caso di specie la sottoscrizione del patto di prova è avvenuta vari mesi dopo l’instaurazione del rapporto di lavoro, durante i quali il M. ha certamente avuto il tempo adeguato per la positiva verifica delle capacità e della personalità della lavoratrice, tanto da decidersi allaformale assunzione.
Tanto più che, secondo quanto affermato dalla stessa società, già nel mese di gennaio 2019 il M. aveva proposto alla lavoratrice l’assunzione, con ciò chiaramente dimostrando di aver positivamente valutato capacità e personalità della lavoratrice già due mesi prima della formale assunzione.
Alla luce delle considerazioni sino a qui svolte, può quindi dirsi dimostrato che il recesso non è in alcun modo collegato all’esperimento della prova e al suo esito e che il motivo formalmente addotto del mancato superamento della prova è palesemente insussistente.
In ordine al motivo illecito, l’appellante ha dedotto che il recesso è stato in realtà la reazione del M. ad una serie di condotte tenute dalla lavoratrice la quale, occupandosi dell’esecuzione delle commesse, era divenuta un cuscinetto tra il M. e i dipendenti: questi le riportavano le loro lamentele e lei se ne faceva portavoce presso il titolare. In particolare, ha allegato (tra l’altro) di aver fatto presente al M. irregolarità relative al mancato pagamento delle indennità di trasferta e del lavoro straordinario e alla pausa pranzo (che non vi era tempo di fare), al ristretto numero dei dipendenti assegnati all’esecuzione degli appalti, alla mancata partecipazione a corsi di formazione, alla mancata consegna dei dispositivi di protezione individuale (DPI) e degli attrezzi da lavoro, al conferimento della qualifica di responsabile tecnico attribuita al proprio compagno, sebbene questi non avesse firmato.
Inoltre, con riferimento al lavoratore S.A., ha allegato di averne segnalato l’irregolare assunzione come apprendista, dal momento che lo S. era transitato alla S. s.r.l. dalla precedente azienda del M. e, in particolare, di averne prese ledifese in occasione di un diverbio avvenuto il 8.4.2019 (due giorni prima del licenziamento) tra lo stesso S. e il M. L’appellante, oltre a lamentare la mancata ammissione di numerosi capitoli di prova vertenti sulle suddette circostanze (invero, con una prima ordinanza il giudice aveva dapprima ammesso tutti i capitoli di prova formulati dalle parti, salvo poi modificare tale decisione con una successiva ordinanza), ha censurato la valutazione delle prove per testimoni esperite dal primo giudice.
La censura circa l’errata valutazione delle deposizioni è fondata.Il primo giudice ha valorizzato il fatto che la mancata consegna dei DPI è stata confermata daun teste (D.L.), ma smentita da altri due testi e, inoltre, il fatto che non è emersa la prova di offese rivolte alla lavoratrice dal M. Ebbene, la sentenza ha completamente omesso di considerare la deposizione della teste R.A., impiegata della società.
Da tale deposizione emerge che la S. prendeva le parti dei dipendenti che si lamentavano (“so che cerano delle lamentele, ma non so di che genere, penso che la ricorrente si facesse portavoce di queste lamentele, avendo contatti con loro”)e che vi erano frequenti discussioni e litigi con il M. (“so che la ricorrente e il titolare litigavano spesso”), anche per le iniziative autonome prese dalla S. (“quando era in ufficio capitava che prendesse iniziative senza il consenso del titolare e che seminasse zizzania tra i dipendenti”).
Si osservi, per inciso, che tali dichiarazioni riscontrano quelle fatte dal teste D., il quale ha riferito che laS. interveniva presso il M. per i DPI (“doveva intromettersi, la S., per queste cose discuteva con lui”), per le trasferte (il M. riteneva troppo cari gli alloggi da lei reperiti per i dipendenti) e per i corsi di formazione.
La B. ha confermato anche la discussione avvenuta l8.4.2019 in relazione al lavoratore S.A., con il quale il M. aveva avuto un diverbio particolarmente pesante. In particolare, ha riferito: “so solo che c’è stata un’aggressione tra il titolare e S. e lui chiamò la ricorrente.
C’è un processo in cui devo testimoniare. So che c’è stata una discussione tra la ricorrente e il titolaree ognuno di loro mi ha riferito una versione differente. Io non ero presente”.
Risulta quindi provato che appena due giorni prima del licenziamento vi fu un’ennesima discussione tra la S. e il M., nella quale la lavoratrice prese le difese del lavoratore, come si desume dal fatto che ognuno dei due contendenti riferì alla B. una versione differente dei fatti.
Risulta a questo punto tratteggiabile la condotta del datore di lavoro: questi, che in precedenza non aveva dato peso agli atteggiamenti della S. a favore dei lavoratori, tanto da provvedere comunque ad assumerla e regolarizzarla, ad un certo punto aveva evidentemente mutato parere e, sulla scorta dell’ultima discussione nella quale la lavoratrice aveva preso le difese di un lavoratore che il M. accusava di aggressione, decise di troncare il rapporto ricorrendo all’escamotage del mancat osuperamento del periodo di prova.
Deve quindi ritenersi raggiunta la prova della natura ritorsiva del licenziamento: da un lato, infatti, è risultata palesemente insussistente la causale posta a fondamento del recesso, dall’altro, la lavoratrice ha fornito una serie di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza che il motivo illecito sia stato determinante e che il motivo formale del licenziamento sia stato solo apparente.
Alla fattispecie si applica quindi l’art. 2, co. 1. D.Lgs. n. 23 del 2015, con conseguente ordine alla società di provvedere alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro.
Ai sensi del comma 2 dello stesso art. 2, la società va poi condannata al risarcimento del danno mediante il pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, calcolata in 1.862,09 mensili, come accertato dalla sentenza appellata e non contestato dalle parti, detratto l’eventuale aliunde perceptum, oltre al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per legge.
Sulle somme spettanti maturano per legge (art. 429 c.p.c.) interessi e rivalutazione monetaria dal dovuto sino al saldo.
Peraltro la Corte ritiene di limitare il periodo di riferimento del pagamento dell’indennità, in applicazione del principio di cui all’art. 1227, co. 2, c.c.
E noto che tale diposizione mira a colpire condotte non diligenti poste in essere dal creditore successivamente al verificarsi dell’evento dannoso ed esclude il risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l’uso della normale diligenza. In particolare, la norma in esame impone al creditore diadottare una condotta attiva, espressione dell’obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, quelle attività che non siano gravose o eccezionali o talida comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (in tal senso, v. Cass. 22352/21).
Il principio in questione è stato applicato anche in caso di risarcimento del danno da illegittimo licenziamento, allorquando risulti che il lavoratore non si sia diligentemente attivato per reperire una nuova occupazione (Cass. 16076/12; Cass. 8006/14).
Orbene, occorre osservare non risulta che la lavoratrice abbia fatto alcunché per reperire una nuova occupazione dopo il licenziamento, nonostante la stessa abbia affermato di avere una notevole esperienza come impiegata commerciale, avendo lavorato per molti anni nel terziario e nonostante sia un fatto notorio che le condizioni del mercato del lavoro in Lombardia (Regione di residenza della S.) offrano frequentemente nel suddetto settore buone occasioni di lavoro.
D’altra parte, la tendenza della lavoratrice a non rendersi attiva nella ricerca di un’occupazione, trova riscontro anche nella condotta tenuta nel periodo antecedente all’instaurazione del rapporto oggetto di causa, essendo risultato (v. sentenza di primo grado) che la S. è rimasta in Naspi per quasi due anni (dall’11.11.2016 al 17.10.2018).
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene quindi di limitare il periodo dell’indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sin oal 30.10.220, ritenendo che un lasso di tempo di 18 mesi risulti nel caso di specie sufficiente perreperire una nuova occupazione.
La accertata natura ritorsiva del licenziamento assorbe il motivo con cui la lavoratrice ha chiesto, in via subordinata, di dichiarare la nullità del licenziamento a causa della nullità del patto di prova.
L’ordine di reintegrazione nel rapporto di lavoro, comporta che divengono non dovuti gli importi liquidati nella sentenza appellata a titolo di TFR e indennità di preavviso.
Per la stessa ragione non può essere accolta la domanda di risarcimento danni per mancato percepimento della Naspi a causa della mancata registrazione del rapporto di lavoro sin dall’inizio.
É chiaro, infatti, a seguito dell’ordine di reintegrazione il rapporto di lavoro è come se non si fosse mai interrotto, tanto che il risarcimento è parametrato alle retribuzioni perse. Pertanto, la domanda di risarcimento danni, essendo volta a coprire il mancato percepimento delle retribuzioni nel periodo successivo al licenziamento non può essere accolta.
L’aliunde percipiendum va detratto dal risarcimento del danno anche in caso di licenziamento nullo