
La necessità (derivante dal combinato disposto dell’art. 412 ter c.p.c. e
del contratto collettivo di volta in volta applicabile) che la conciliazione
sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito
formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza
dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che
la conciliazione corrisponda ad una volontà non coartata, quindi genuina, del
lavoratore.
Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio
attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato
anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive
deve dirsi raggiunto.
In tal caso la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale (nella specie, presso uno studio oculistico:
v. ricorso per cassazione, p. 12) non produce alcun effetto invalidante sulla
transazione.
Sul piano del riparto degli oneri probatori, se la conciliazione è stata
conclusa nella sede “protetta”, allora la prova della piena consapevolezza
dell’atto dispositivo può ritenersi in re ipsa o desumersi in via presuntiva
(Cass. n. 20201/2017).
Pertanto graverà sul lavoratore l’onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale.
Se invece la conciliazione è stata conclusa in una sede diversa, allora l’onere
della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che,
nonostante la sede non “protetta”, il lavoratore, grazie all’effettiva
assistenza sindacale, ha comunque avuto piena consapevolezza delle
dichiarazioni negoziali sottoscritte.
Cassazione Civile Sezione Lavoro 1975/24