CORTE DI APPELLO DI LECCE SEZIONE LAVORO 09/05/2025

Con ricorso depositato il 2.05.2019, esponeva di aver lavorato presso Controparte_in forza di plurimi contratti di collaborazione coordinata e continuativa “ a progetto” nel periodo dal 1 luglio 2014 al 31 gennaio 2017 e, successivamente, in virtù di contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato part-time (e innumerevoli proroghe degli stessi) stipulati per il periodo dal 22 febbraio 2017 al 7 gennaio 2019; di essere stata inquadrata, all’esito dei predetti contratti di somministrazione, nel libello B1 del C.C.N.L. Agenzie di Somministrazione – Assicurazioni addetti call center, con mansioni di “addetto al call center front end e/o back office”; di aver osservato un orario superiore alle 20 ore settimanali concordate contrattualmente, con una media di 40 ore settimanali, risultando di fatto inserita nel normale ciclo produttivo della società utilizzatrice.

 

Tanto premesso, chiedeva accertarsi la nullità del termine apposto ai contratti di somministrazione, con conseguente instaurazione del rapporto di lavoro in capo a sin dal primo contratto di lavoro stipulato (1.07.2014), con conseguente condanna della stessa società all’immediato ripristino del rapporto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate oltre all’indennità risarcitoria prevista dall’art. 39, comma 2, d.lgs. n. 81/2015.

 

A sostegno della domanda evidenziava la natura fittizia dei contratti di somministrazione formalmente sottoscritti, visto che il rapporto di lavoro subordinato era intercorso sostanzialmente che era stata l’unica utilizzatrice cui la ricorrente era stata destinata nell’arco temporale di oltre 36 mesi, nel corso dei quali era stata inserita nel ciclo produttivo della società, espletando le stesse mansioni dei suoi dipendenti. Deduceva, inoltre, la violazione delle seguenti disposizioni di cui al d.lgs. n. 81/2015: mancato rispetto del limite di contingentamento (artt. 31 e 38); violazione dell’obbligo di informazione sui posti vacanti e sulla quantità e qualità dei contratti conclusi annualmente dall’utilizzatore (artt. 31, comma 3 e 36, comma 3); omessa indicazione, nei contratti di somministrazione, degli elementi sanciti dall’art. 33; mancata valutazione dei rischi (art.32).

 

Si costituiva in giudizio la società resistente che contestava in fatto e diritto gli avversi assunti e chiedeva il rigetto del ricorso.

Il Tribunale, istruita la causa con l’espletamento della prova testimoniale richiesta dalle parti, accoglieva la domanda attorea dichiarando la sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato con decorrenza 22.2.2017 alle medesime condizioni e inquadramento, con condanna della società pagare in favore della ricorrente una indennità pari a sei mensilità ex d. lgs. n°81/2015 oltre accessori.

In particolare, il Tribunale -affermata la necessità di un interpretazione delle norme nazionali il più possibile conforme al diritto eurounitario, e richiamati i principi già espressi dalla CGUE (sentenze n. 681 del 14.10.2020 e n. 232 del 17 marzo 2022) e dalla Corte di Cassazione (n. 23494/2022) circa la temporaneità del ricorso al lavoro interinale- accertava che i contratti di somministrazione sottoscritti dalla ricorrente erano stati stipulati in elusione della normativa eurounitaria e della legge nazionale ed erano, quindi, da considerarsi nulli.

Tanto veniva desunto da una congerie di elementi quali: la pluralità di contratti susseguitisi in un arco temporale di quasi tre anni; l’adibizione della lavoratrice sempre alle medesime mansioni e presso lo stesso utilizzatore in via esclusiva; la prestazione, in maniera pressoché generalizzata, di lavoro supplementare, con un tendenziale allineamento del rapporto di lavoro sotto il profilo temporale ad un rapporto full-time; l’indicazione, da parte della impresa utilizzatrice, dello specifico lavoratore da impiegare nell’attività lavorativa in questione (, per come risultava dalle annotazioni del nome della ricorrente,)con scrittura a mano, su buona parte dei contratti di somministrazione con l’agenzia interinale prodottidalla stessa parte resistente.

 

Con ricorso depositato il 7.7.2023, ha proposto appello avverso la predetta sentenza censurandola, in via principale, per i motivi che di seguito si sintetizzano:

1) violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto il Tribunale aveva accolto la domanda sulla base di una causa petendi -nullità per pretesa elusione della direttiva n. 104/2008 e per asserita frode alla legge ex art. 1344 c.c.- che la signora non aveva allegato nel ricorso introduttivo del giudizio, facendone riferimento solo nelle note difensive datate 29.11.2022. Ha eccepito pertanto il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata, in quanto, sebbene la nullità del contratto sia rilevabile d’ufficio, tale potere del giudice deve essere coordinato con il principio della domanda, sicché il Tribunale non avrebbe potuto rilevare la nullità della somministrazione per violazione della normativa eurocomunitaria o dell’art. 1344 c.c., trattandosi di una ragione di nullità non allegata;

 

2) i contratti commerciali di somministrazione non erano stati stipulati in violazione della normativa comunitaria. La direttiva 2008/104, infatti, non impedisce all’impresa di ricorrere alla somministrazione anche per far fronte a stabili esigenze di occupazione, tanto è vero che non ne subordina la legittimità all’esistenza di ragioni di carattere tecnico produttivo, organizzativo o sostituivo, laddove, peraltro, nella specie, i livelli di servizi richiesti dal contratto stipulato con l’agenzia di somministrazione non erano prevedibili. In ogni caso non poteva ritenersi che avesse raggirato la natura “ragionevolmente temporanea del lavoro interinale”, stante a durata complessiva del rapporto di lavoro intrattenuto con l’appellata, che era comunque contenuta nel limite di 36 mesi previsto dall’art. 47 CCNL delle agenzie di somministrazione e dall’allegato 18 del CCNL Assicurazioni addetti al call Center. Infine, pure irrilevante doveva ritenersi il ricorso al avoro supplementare, condizionato dalla variabilità dei livelli di servizio da erogare. In ogni caso, la lettura eurounitaria della norma non poteva essere tale da fondare una interpretazione contra legem del diritto nazionale, per come espressamente affermato dalla giurisprudenza richiamata dalTribunale.

 

3) i contratti commerciali di somministrazione non erano stati stipulati in elusione della normativa nazionale. La circostanza evidenziata dal Tribunale -secondo cui l’indicazione del nominativo del singolo lavoratore prescelto nel contratto commerciale era espressione tipica del potere datoriale nell’ordinario rapporto di lavoro subordinato- non snaturava lo schema legale del lavoro interinale; peraltro la scelta del singolo lavoratore era avvenuta solo dopo una preventiva preselezione effettuata dall’agenzia interinale e non violava alcuna previsione di legge.

 

In via subordinata ha articolato i seguenti motivi: 1)anche in ipotesi di contrasto con la direttiva comunitaria, non poteva derivare la nullità dei contratti di somministrazione, in quanto l’ordinamento prevede tale sanzione solo nei casi stabiliti dalla legge, quando il contratto è contrario a norme imperativa (1418 c.c.) o costituisca il mezzo per eludere una norma imperativa (1344 c.c.), laddove gli scopi di una direttiva europea non potevano considerarsi norme imperative;

 

2) anche in ipotesi di nullità dei contratti, non deriverebbe la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, conseguenza prevista dall’art. 38, comma 1, d.lg.s n. 81/2015 solo in ipotesi di mancanza di forma scritta;

 

3) il Tribunale aveva errato nel riconoscere alla lavoratrice, nell’ambito del contratto a tempo indeterminato a far data dal 22 febbraio 2017, “le medesime condizioni e inquadramento”, non risultando una espressa domanda in tal senso e perché avrebbe dovuto lasciare alla società la scelta di quale contratto applicare;

 

4) ha riproposto, infine, le difese già articolate nella memoria di primo grado quanto al rispetto della forma scritta e degli elementi richiesti per legge nella stipula dei contratti di somministrazione, all’adempimento degli obblighi di sicurezza sul lavoro, al rispetto del limite percentuale di lavoratori somministrati posto che la percentuale dei lavoratori somministrati dal 2014 al 2017 è sempre stata ben al di sotto del 15%, l’adempimento dell’obbligo di comunicazione alle OO.SS. dei rapporti di somministrazione e la comunicazione dei posti vacanti (motivo articolato in ipotesi di riproposizione delle correlative domande da parte della lavoratrice appellata).

 

Ha concluso per il rigetto delle domande proposte da Controparte e per la condanna di quest’ultima alla restituzione di tutto quanto ricevuto dalla società in esecuzione della sentenza impugnata.

 

Con memoria depositata il 13.5.2024 si è costituita la lavoratrice , che, con riferimento al primo motivo di appello, ha evidenziato che già nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stata espressamente evidenziata la illegittimità della reiterazione dei contratti di somministrazione a tempo determinato sottoscritti , attraverso i quali era stato celato il reale rapporto di lavoroed erano stati invocati i principi di correttezza e buona fede, laddove era la stessa Corte di giustizia europea, nella sentenza n. 681/2018, a richiedere ai giudici nazionali di esercitare un controllo su rapporti di lavoro tramite agenzia interinale al fine di evitare eventuali abusi; ha richiamato, in proposito, il principio dello iura novit curia. Ha contestato i restanti motivi di appello,richiamando la giurisprudenza di merito di questa Corte.

 

L’appellata ha riproposto, poi, alcune delle eccezioni su cui il primo giudice non si era pronunciato ritenendole assorbite e, in particolare, ha eccepito l’illegittimità dei contratti di somministrazione per carenza del documento di valutazione dei rischi (DVR) aggiornato e per totale assenza di tale documento in relazione alle unità locali denominate Lecce 3 e Lecce 4 presso cui la stessa lavoratrice aveva prestato la propria attività; la mancanza del DVR comportava, ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 81/2015, la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con l’utilizzatore. Ha chiesto, pertanto ,l’integrazione della motivazione sul punto, concludendo per il rigetto dell’appello con il favore delle spese.

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

L’appello è infondato e deve essere rigettato.

La Corte si è già pronunciata, in diverse occasioni, in fattispecie che presentano aspetti sostanzialmente sovrapponibili a quelli che occupano nel presente giudizio (cfr. sentenze n. 906/2022, n. 901/2023 e n°37/2024), sicché, ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., si farà di seguito riferimento ad alcuni passaggi motivazionali espressi nelle richiamate pronunce.

 

Preliminarmente deve essere disatteso il primo motivo di appello, con cui parte appellante denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., sul presupposto che il Tribunale avrebbe accolto la domanda in base a una causa petendi (nullità per pretesa elusione della direttiva n. 104/2008 e per asserita frode alla legge ex art. 1344 c.c.) introdotta per la prima volta con le note difensive datate 29.11.2007.

 

Sul punto si rileva che l’appellata, sin dal ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ha espressamente dedotto (alla pag. 16) che i contratti di somministrazione lavoro a tempo determinato sottoscritti formalmente con e più volte prorogati “erano di natura fittizia in quanto altro non rappresentavano che una mera formalità sotto cui veniva celato il reale rapporto di lavoro di natura subordinata intercorrente tra la ricorrente e la società la cui condotta non è stata certamente ispirata ai principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 1375 cod. civ.” e ha concluso chiedendo di accertare la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall’instaurazione del rapporto di lavoro.

 

A fronte di siffatte allegazioni e conclusioni deve ritenersi che la doglianza di parte appellante sia infondata alla luce del principio "iura novit curia", di cui all'art. 113 c.p.c., comma 1, in forza del quale l giudice può assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio deve essere posto in immediata correlazione con il divieto di ultra o extra-petizione, di cui all'art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è invece precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato (Cass. 5832/2021). Sulla scorta di tale principio di diritto deve allora ritenersi che non si verifichi una mutazione della originaria domanda e neppure una extrapetizione allorché il giudice, considerando i medesimi fatti oggetto della controversia, addivenga ad una differente qualificazione giuridica degli stessi o li assoggetti alla regola iuris ritenuta più adeguata alla fattispecie in esame (cfr. Cass. n. 31861/2022).

 

Deve quindi ritenersi che correttamente nella sentenza impugnata, sulla scorta delle allegazioni attoree, il giudice di prime cure abbia condotto un’indagine tesa alla verifica della conformità dello schema contrattuale adottato rispetto ai principi fondanti la Direttiva 2008/104/CE nell’interpretazione datane dalla CGUE, laddove è la stessa Corte di Giustizia europea nella sentenza n. 681/18 del 14.10.2020 a richiedere ai giudici nazionali di esercitare un controllo sui rapporti di lavoro tramite agenzia di interinale al fine di evitarne eventuali abusi.

 

Il secondo e terzo dei motivi di appello proposti in via principale e il primo ed il secondo dei motivi proposti in via subordinata possono essere esaminati congiuntamente.

 

Preliminarmente deve rilevarsi, quanto all’applicazione delle direttive, che la Corte di Giustizia è intervenuta a chiarire il concetto di interpretazione conforme inerente al sistema del trattato che contempla l’obbligo di leale collaborazione (ora art. 4 par. 3 del TUE). L’interpretazione conforme coinvolge l’esame di tutta la produzione normativa interna che va esaminata secondo criteri ermeneutici che permettano di evitare il contrasto (ivi compresi i contratti collettivi, come in sent.Pfeiffer- Corte Giust. 5.10.2004).

Questa interpretazione è imposta dalla risalente sent. CG 10.4.1984) che sanziona l’impegno di tutti gli Stati, ivi compresi gli organi giurisdizionali, di conseguire il risultato contemplato dalla direttiva e di adottare ex art. 5 del Trattato tutti i provvedimenti necessari a garantire questo impegno. Tale affermazione è stata ribadita nelle successive decisioni (tra le tante le risalenti Mangold, Kukudeveci). Pertanto, il Giudice nazionale è tenuto all’ossequio di tale regola, come più volte affermato dalla S.C. (sent. nn. 10414 e 24325/2020; n. 23499/2022 in tema di somministrazione), anche a fronte di norme UE non dotate di effetto diretto (CGUE 8.11.2016 in C-554/14), in forza dell’art. 4 del TUE che impone la leale cooperazione e l’interpretazione del diritto interno, secondo le regole ermeneutiche proprie, in modo conforme con quello eurounitario e agli scopi che lo ispirano (CGUE 24.6.2019 in C-573/2017; 24.1.2012 in C-282/2010; 19.9.2019 in C-467/18); solo quando tale interpretazione risulti impossibile deve verificare la praticabilità di altre soluzioni onde realizzare la compatibilità tra i due sistemi.

 

Tanto chiarito, si rileva che il d. lgs. n. 81 del 15 giugno 2015 ha ridisegnato la disciplina della somministrazione di lavoro nel capo IV, artt. 30 e seguenti. L’art. 31, comma 2, a proposito della somministrazione di lavoro a tempo determinato, prevede: “La somministrazione di lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall'utilizzatore. È in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori di cui all'articolo 8, comma 2, della legge n. 223 del 1991, di soggetti disoccupati che godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, e di lavoratori «svantaggiati» o «molto svantaggiati» ai sensi dei numeri 4) e 99) dell'articolo 2 del regolamento UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoroe delle politiche sociali”.

 

Ai sensi dell’art. 34, comma 2, “In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra omministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III per quanto compatibile, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 19, commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24. Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore”.

 

La somministrazione irregolare è disciplinata dall’art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015 che, ai primi due commi, stabilisce: “1. In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'utilizzatore. 2. Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell'utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione”.

In sostanza, per il lavoro somministrato a termine, il d.lgs. n. 81/2015, in continuità con la l.n. 92/2012 che con il d.l. n. 34/2014, ha eliminato ogni limite espresso all’utilizzo in missioni successive dello stesso lavoratore presso la medesima impresa utilizzatrice. La normativa del 2015 non subordina la legittimità della somministrazione di lavoro a tempo determinato all'esistenza di causali giustificative, non individua un termine di durata massima delle missioni (contrariamente a quanto stabilito dall’art. 19 per il contratto di lavoro a tempo determinato), non pone limiti alle proroghe e ai rinnovi (previsti invece per il contratto a tempo determinato dall'articolo 21), ma prevede unicamente limiti quantitativi di utilizzazione (art. 31, comma 2), la cui individuazione è rimessa ai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore.

 

Nella specie, è accertato che la lavoratrice è stata inviata in missione presso la stessa società utilizzatrice in base a plurimi contratti di somministrazione di lavoro (5 contratti e 16 proroghe)conclusi nel periodo dal 22.02.2017 al 7.01.2019.

 

Assodata la vincolatività del diritto dell’Unione nell’ambito e nei limiti dell’interpretazione conforme, va osservato che la Direttiva 2008/104/CE -che, tra l’altro, all’art. 3 par. 2 impone agli Stati membri di non escludere dal suo raggio di applicazione i lavoratori interinali part-time e quelli a tempo determinato- pone attenzione agli abusi (considerando 21) tanto da imporre agli Stati membri l’adozione di sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate in caso di mancata ottemperanza agli obblighi ivi previsti.

 

Lo scopo della Direttiva 2008/104/CE, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia (sentenza del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18), è finalizzato a far sì che gli Stati membri si adoperino affinché il lavoro tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice non diventi una situazione permanente per uno stesso lavoratore. La Corte di Giustizia ha concluso che l’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della direttiva 2008/104 deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che non limita il numero di missioni successive che un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale può svolgere presso la stessa impresa utilizzatrice e che non subordina la legittimità del ricorso al lavoro tramite agenzia interinale all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustifichino tale ricorso.

Per contro, tale disposizione deve essere interpretata nel senso che essa osta a che uno Stato membro non adotti alcuna misura al fine di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale, nonché ad una normativa nazionale che non preveda alcuna misura al fine di evitare l’assegnazione ad un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale di missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice con lo scopo di eludere le disposizioni della direttiva 2008/104 nel suo insieme..

 

Dunque, la Direttiva intende perseguire in modo armonico un duplice scopo: da un lato, quello di accordare una tutela minima ai lavoratori somministrati in tema di parità di condizioni di lavoro, non discriminazione e salvaguardia della salute e, dall’altro, quello di garantire la flessibilità, che connota l’agire delle imprese che scelgono di ricorrere a personale esterno per fronteggiare particolari eventi.

 

Tali obiettivi esprimono la volontà di riavvicinare le condizioni di lavoro degli interinali a quelle proprie del lavoratore “normale”, quindi a quello dipendente a tempo indeterminato. Tanto si ricava dalla combinata lettura dei paragrafi 1 e 2 dell’art. 6, come affermato da CGUE nella sent. 14.10.2020 in C-681/18 al punto 51 e nella più recente sent. del 17.3.2022 in C-232/20, punto 34 (e relativi richiami), ove si afferma che la Direttiva mira ad incoraggiare l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore al termine della missione da parte dell’impresa che ne ha utilizzato la prestazione.

 

Alla luce di tali considerazioni occorre delineare il concetto di temporaneità, sul quale la Direttiva pone l’accento tanto da imporre, all’art. 5 par. 5, l’adozione da parte degli Stati membri di tutte le misure necessarie a prevenire l’assegnazione di missioni successive presso la stessa impresa con finalità elusive. CGUE del 14.10.2020 in C-681/18 ha sottolineato tale aspetto (punti da 55 a 60). Il concetto di temporaneità è stato inoltre puntualizzato dalla CGUE nella sentenza del 17.3.2022 resa in C-232/20 nel quale si è affrontata la questione della temporaneità rispetto a missioni durate complessivamente 55 mesi. La Corte -rilevato da un lato che la direttiva non ha lo scopo di definire n modo specifico la durata della messa a disposizione di un lavoratore interinale presso l’impresa utilizzatrice e non impone agli stati membri l’obbligo di definire detta durata (punto 53) e, dall’altro, che l’art. 5 par. 5, prima frase, nell’imporre agli Stati di adottare misure necessarie a prevenire missioni successive con lo scopo di eludere le disposizioni della direttiva stessa non impone la limitazione della durata di dette missioni (punto 54)- ha affermato che la durata delle missioni, in conformità all’art. 1, par. 1, della direttiva “deve avere necessariamente natura temporanea, vale a dire, secondo il significato di tale termine nel linguaggio corrente, essere limitata nel tempo” (punto 57). Ha poi aggiunto che “…61…missioni successive assegnate al medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice eludono l’essenza stessa delle disposizioni della direttiva 2008/104 e costituiscono un abuso di tale forma di rapporto di lavoro, in quanto compromettono l’equilibrio realizzato da tale direttiva tra la flessibilità per i datori di lavoro e la sicurezza per i lavoratori, a discapito di quest’ultima [sentenza del 14 ottobre 2020, KG (Missioni successive nell’ambito del lavoro interinale), C-681/18, EU:C:2020:823, punto 70]. Infine, quando, in un caso concreto, non viene fornita alcuna spiegazione oggettiva al fatto che l’impresa utilizzatrice interessata ricorra ad una successione di contratti di lavoro tramite agenzia interinale, spetta al giudice nazionale verificare, nel contesto del quadro normativo nazionale e tenendo conto delle circostanze di specie, se una delle disposizioni della direttiva 2008/104 venga aggirata, a maggior ragione laddove ad essere assegnato all’impresa utilizzatrice in forza dei contratti successivi in questione sia sempre lo stesso lavoratore tramite agenzia interinale [sentenza del 14 ottobre 2020, KG (Missioni successive nell’ambito del lavoro interinale), C-681/18, EU:C:2020:823, punto 71].

 

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla seconda questione che l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 5, paragrafo 5, della direttiva 2008/104 devono essere interpretati nel senso che costituisce un ricorso abusivo all’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale il rinnovo di tali missioni su uno stesso posto presso un’impresa utilizzatrice per la durata di 55 mesi, nell’ipotesi in cui le missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice conducano a una durata dell’attività, presso quest’ultima impresa, più lunga di quella che può essere ragionevolmente qualificata «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore, e nel contesto del quadro normativo nazionale, senza che sia fornita alcuna spiegazione obiettiva al fatto che l’impresa utilizzatrice interessata ricorre a una serie di contratti di lavoro tramite agenzia interinale successivi, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

 

La sentenza in questione amplia la portata della precedente resa dalla CGUE il 14.10.2020 in C- C-681/18 perché aggiunge un ulteriore tassello alla valutazione del giudice, evidenziando come missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice, ove conducano a una durata dell’attività presso tale impresa più lunga di quella che “possa ragionevolmente qualificarsi «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore”, potrebbero denotare un ricorso abusivo a tale forma di lavoro, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della Direttiva 2008/104.

 

La sentenza del 17 marzo 2022 ha stabilito che l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 5, paragrafo 5, della Direttiva 2008/104 debbano essere interpretati nel senso che costituisce un ricorso abusivo all’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale il rinnovo di tali missioni su uno stesso posto presso un’impresa utilizzatrice, nell’ipotesi in cui le missioni successive dello stesso lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice conducano auna durata dell’attività, presso quest’ultima impresa, più lunga di quella che può essere ragionevolmente qualificata “temporanea”, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore, e nel contesto del quadro normativo nazionale, senza che sia fornita alcuna spiegazione obiettiva al fatto che l’impresa utilizzatrice interessata ricorre a una serie di contratti di lavoro tramite agenzia interinale successivi, circostanza che spetta al giudicedel rinvio verificare.

 

La risposta alla questione, esplicitata al punto 83, acquisisce, poi, particolare rilievo anche nel panorama normativo interno nel quale la possibilità di far valere la durata complessiva delle missioni presso la medesima impresa utilizzatrice può essere paralizzata dall’eccezione di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. d) l. n. 183/2010.

 

Su tale aspetto si è pronunciata di recente la S.C., che nella sentenza n. 23499/2022 (punti da 3.57 a 3.63) ha affermato come l’interpretazione della predetta norma nel senso di precludere al Giudice nazionale di prendere in considerazione il rapporto di lavoro somministrato per il quale è maturata la decadenza si porrebbe in contrasto l’art. 5 par. 5 della Direttiva e che l’interpretazione conforme deve orientarsi verso la valorizzazione della durata complessiva come fatto storico. Questo “… entra a far arte di una sequenza di rapporti e … può essere valutato, in via incidentale, dal giudice, al fine di verificare se la reiterazione delle missioni del lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice abbia oltrepassato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea, si da realizzare una elusione degli obiettivi della Direttiva 2008/104” (così al punto 3.62). sentenza della S.C. n. 23499/2022 (vedi, in termini, anche Cass. n. 23495/2022 e n. 29570/2022), nel procedere alla valutazione di conformità del diritto interno sul lavoro somministrato con il diritto dell’Unione, ha osservato quanto segue: “3.39. Pertanto la normativa nazionale va esaminata conformemente alla normativa europea, tenuto conto che le indicazioni della Corte di Giustizia, in un caso che rientra nella sfera applicativa dell’articolo 5, paragrafo 5, della Direttiva 2008/104, implicano:

a) nell’ambito dei parametri della Direttiva 2008/104, spetta a uno Stato membro garantire che il proprio ordinamento giuridico nazionale contenga misure idonee a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione al fine di prevenire il ricorso a missioni successive con lo scopo di eludere la natura interinale dei rapporti di lavoro disciplinati dalla Direttiva 2008/104;

b) il principio di interpretazione conforme al diritto dell’Unione impone al giudice del rinvio di fare tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale, per garantire la piena efficacia della Direttiva 2008/104 sanzionando l’abuso in questione ed eliminando le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (in questi termini e conclusioni dell’Avvocato Generale Sharpston depositate il 23 aprile 2020 nella causa JH c. KG, C-681/18).3.40. La Corte di Giustizia, nelle sentenze del 14 ottobre 2020 e del 17 marzo 2022 più volte citate, ha nterpretato la Direttiva 2008/104 mettendo in risalto, quale requisito immanente e strutturale del lavoro ramite agenzia interinale, il carattere di temporaneità e segnalando il rischio di un ricorso abusivo a tale citata forma di lavoro in presenza di missioni successive che si protraggano per una durata che non possa, secondo canoni di ragionevolezza, considerarsi temporanea, avuto riguardo alla specificità del settore e alla esistenza di spiegazioni obiettive del ricorso reiterato a questa forma di lavoro. 3.41. In tale contesto, l’obbligo imposto agli Stati membri dall’art. 5, par. 5, prima frase, di adottare le misure necessarie per impedire il ricorso abusivo ad una successione di missioni di lavoro tramite agenzia interinale, in contrasto con le finalità della Direttiva, è chiaro, preciso e incondizionato. 3.42. Posto che l’art. 5, par. 5, cit. non può essere direttamente invocato dal lavoratore in rapporti orizzontali, cioè tra soggetti privati, la possibilità di una interpretazione conforme delle disposizioni nazionali in grado di garantire l’effetto utile alle disposizioni del diritto dell’Unione deve basarsi anche sulle disposizioni interne che disciplinano gli effetti di condotte elusive di norme imperative, e tra queste l’art. 1344 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 1418 cod. civ.”.

 

Al giudice del merito è demandata tale verifica in concreto, non potendo questi arrestarsi “all’affermazione dell’inesistenza di un limite temporale formalmente previsto” (così Cass. n. 13982/2022 n un caso di lavoro flessibile nel pubblico impiego; in precedenza v. Cass. n. 446/2021). Peraltro, “l’art. 1344 c.c. è già stato evocato come strumento utile per evitare che, attraverso ripetute assunzioni a tempo determinato, sia possibile porre in essere una condotta che integri una frode alla legge, e quindi quale misura adeguata e idonea a prevenire abusi nel susseguirsi di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, affidando al giudice del merito il compito di desumere da “elementi quali il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, l’arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e ogni altra circostanza fattuale che emerga dagli atti, l’uso deviato e fraudolento del contratto a termine” (v. Cass. n. 59 del 2015; Cass. n. 14828 del 2018). 3.47. Il fatto che il d.lgs. n. 81 del 2015, e prima ancora il d. lgs. n. 276 del 2003, non contenga alcuna previsione esplicita sulla durata temporanea del lavoro tramite agenzia interinale non impedisce di considerare tale requisito come implicito ed immanente del lavoro tramite agenzia interinale, in conformità agli obblighi imposti dal diritto dell’Unione, non comportando una simile lettura una nterpretazione contra legem” (Cass. n. 23499/2022).

 

Venendo alla fattispecie concreta, il Collegio ritiene che vi sia stato un ricorso abusivo a missioni successive avuto riguardo alla successione delle medesime, senza soluzione di continuità per un arco di tempo superiore a due anni, con impiego costante della lavoratrice come addetta al call center front end e/o front office, senza che risulti una spiegazione oggettiva al fatto che l’impresa utilizzatrice nteressata abbia fatto ricorso ad una successione di contratti interinali. Inoltre, anche dal ricorso massiccio e costante -evincibile dall’esame delle buste paga in atti- al lavoro supplementare e straordinario è desumibile lo stabile inserimento della lavoratrice nell’organizzazione aziendale.

 

Se è vero che la Direttiva non detta limiti di durata al ricorso al lavoro interinale e non ne suggerisce l’imposizione agli Stati membri, a parere di questa Corte la durata pressoché ininterrotta delle missioni per oltre 24 mesi non è coerente con il principio di temporaneità in fattispecie nella quale difetta la prova di quelle particolari esigenze univocamente idonee a giustificare il ricorso sistematico alla flessibilità esterna da parte dell’impresa.In proposito non può invocarsi il disposto dell’art. 47 del c.c.n.l. delle imprese di somministrazione.

 

Tale norma, intitolata “Proroghe” (“1. La materia delle proroghe è di esclusiva competenza del presente Contratto Collettivo. Con riferimento al dettato previsto all’articolo 22, comma 2, secondo periodo del D.lgs 276/03, in caso di assunzione con contratto di lavoro a tempo determinato, il termine posto inizialmente posto al singolo contratto di lavoro può essere prorogato fino ad un massimo di 6 volte Il singolo contratto, comprensivo delle eventuali proroghe, non può avere una durata superiore a 36 mesi. Il periodo temporale dei 36 mesi si intende comprensivo del periodo iniziale di missione, fermo restando che l’intero periodo si configura come un’unica missione. 2. Il periodo iniziale può essere prorogato con il consenso del lavoratore/trice e, ai soli fini probatori, deve essere formalizzato con atto scritto. Le proroghe sono da intendersi continuative, senza alcuna soluzione di continuità del rapporto di lavoro. 3. (…) 4. L’informazione al lavoratore/trice della durata temporale della proroga va fornita, salvo motivi ’urgenza, con un anticipo di 5 giorni rispetto alla scadenza inizialmente prevista o successivamente prorogata, e comunque mai inferiore a 2 giorni”), pone limiti di durata al contratto a tempo determinato tra Agenzia di somministrazione e lavoratore assunto in modo conforme alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 368/2001 (per il richiamo ivi contenuto al co. 2 dell’art. 22 d.lgs n. 276/2003); stante la sfera di applicazione a tale rapporto, è evidente come detto termine, che pur è stato rispettato nel caso in esame, non possa assurgere a parametro utile e sufficiente per escludere un eventuale uso improprio della somministrazione.

 

Ulteriore indice rivelatore delle finalità elusiva della normativa interna e del duplice scopo della Direttiva si rinviene nella individuazione “intuitu personae” del lavoratore somministrato, fatto questo evincibile dalla indicazione nominativa della lavoratrice appellata, apposta con scrittura a mano nei contratti commerciali di somministrazione prodotti in atti, sostanzialmente non contestato dall’appellante ed emerso dall’istruttoria laddove il teste lavoratore dipendente di ha riferito che era ad indicare i soggetti da assumere all’esito del processo di selezione .(v. anche dichiarazioni del teste che conferma le richieste nominative da parte di ).

 

Tali dichiarazioni testimoniali permettono di delineare il ruolo di , che nel caso di specie ha agito come mera mediatrice dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro già prima dell’instaurazione del rapporto a termine con l’aspirante. Detta Agenzia raccoglieva disponibilità all’impiego in call center e le valutava alla stregua delle esigenze della potenziale utilizzatrice prima della stipula del contratto commerciale, sottoponeva all’impresa la lista e, ottenuto l’assenso, avviava i prescelti da a corsi di formazione. Infine, questi venivano assunti con contratti a termine stipulati dopo la conclusione del contratto commerciale.

 

Su questo singolare modus operandi si modellava la prosecuzione dei rapporti tra l’Agenzia ed il avoratore. Se le “performances” del lavoratore somministrato fossero state positivamente apprezzate dall’utilizzatrice, il contratto commerciale sarebbe stato prorogato e, nonostante l’indicazione numerica del personale richiesto, di fatto veniva inviato in missione il medesimo lavoratore prorogando il primo contratto a termine, o stipulando altro contratto.

 

Questa sequenza è rispecchiata nella produzione documentale da cui emerge la coincidenza tra la stipula dei contratti a termine con e quella del relativo contratto di somministrazione.

 

E’ dunque evidente il fraudolento discostamento dallo schema contrattuale tipico del lavoro interinale stante l’emersione del fenomeno dell’interposizione.

In punto di diritto questa Corte ritiene di dover richiamare il proprio precedente -sentenza n. 893/2020 (pronunciata in fattispecie di somministrazione “intuitu personae”)- il cui saliente passaggio motivazionale nella parte attinente la disamina dell’art. 21 del d.lgs n. 276/2003 (che prescrive l’indicazione del numero dei lavoratori, non anche i nominativi), è perfettamente aderente nel presente giudizio: “La nominativa individuazione, da parte dell’utilizzatore, del lavoratore che si chiede in somministrazione comporta un’alterazione dell’istituto…per come disegnato dalla legge nei suoi contorni di liceità, nonché una deviazione causale rispetto alla sua funzione tipica. Ed invero, la scelta del singolo lavoratore a cui affidare la prestazione esprime un potere datoriale pieno, che esercitandosi su aspetti fondamentali del rapporto sin dalla sua nascita, assume la consistenza propria del contratto di lavoro subordinato, il quale, infatti, tipicamente viene stipulato in maniera diretta tra lavoratore e destinatario della prestazione e presuppone una selezione fiduciaria. La somministrazione di lavoro, che invece, si attua ttraverso il collegamento tra due contratti e tre soggetti….e attraverso la scissione tra la titolarità del rapporto…e la gestione della prestazione lavorativa, si caratterizza proprio perché risponde ad una esigenza imprenditoriale di mera acquisizione indiretta di energie lavorative; il ricorso ad una fattispecie giuridica così complessa ha ragion d’essere solo laddove l’impresa utilizzatrice necessiti di prestazioni genericamente individuabili con il semplice riferimento alle mansioni o all’inquadramento contrattuale, rispetto alle quali restano indifferenti l’identità e l’abilità/capacità specifica del singolo lavoratore… L’adozione formale di meccanismi del contratto di somministrazione di lavoro, allorché sia invece sottesa la finalità sostanziale di scegliere il prestatore intuitu personae, assume carattere fraudolento, perché viola il persistente divieto di interposizione …così incorrendo nell’ipotesi di cui all’art. 28 d.lgs n. 276/2003 e, secondo la disciplina generale agli artt. 1344 e 1418 c.c., nella sanzione della nullità. Ne risulta la deviazione dall’originario schema causale, che di fatto viene piegato, nonostante la mera apparenza dell’esercizio legittimo dell’autonomia privata, al perseguimento di un interesse che la legge, invece, prevede sia definito secondo distinte modalità tipiche, con la conseguenza che l’intesa nella forma del contratto di somministrazione si configura come patto in frode alla legge e, in quanto tale viziato da nullità”.

 

Si rileva inoltre che il fraudolento fenomeno interpositorio descritto rivela il punto di rottura di quell’equilibrio che la Direttiva 2008/104 intende perseguire. Da un lato, l’alterazione dei meccanismi di attingimento della forza lavoro dipendente da Controparte tramite preselezione ad opera dell’utilizzatrice a discapito della trasparenza che presidia l’occupazione a parità di condizioni di inquadramento e, dall’altro, la torsione del concetto di flessibilità delle imprese (questo da intendersi come possibilità di ricorso all’esternalizzazione del lavoro) resa evidente dalla individuazione nominativa del prestatore di lavoro, collidono con gli obiettivi eurounitari che convergono nel considerare il lavoro somministrato (se attuato per durata ragionevole) uno strumento negoziale complesso destinato a creare condizioni di lavoro che evolvano nella forma “normale” del contratto a tempo indeterminato.

 

Le suesposte considerazioni confermano il convincimento che il ricorso alla somministrazione di lavoro, per come effettuato nella presente fattispecie, integri un’ipotesi di frode alla legge (art. 1344 c.c.); si configura, quindi, nella specie, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato al quale è stata artificiosamente attribuita la forma di una successione di contratti di lavoro tramite agenzia interinale con lo scopo di eludere gli obiettivi della Direttiva 2008/104, ed in particolare la natura temporanea del lavoro interinale (sentenza C-681/2018, punto 67).

 

Il terzo e il quarto dei motivi di appello proposti in via subordinata possono essere trattati congiuntamente e appaiono infondati.

 

Invero, per un verso, deve rilevarsi che appare corretta la statuizione del Tribunale nella parte in cui ha riconosciuto la sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato “alle medesime condizioni ed inquadramento”, tale essendo l’inquadramento contrattuale riconosciuto alla lavoratrice nel periodo lavorativo trascorso presso (v.memoria di costituzione di nel giudizio di primo grado).

 

Per altro verso, a proposito della retribuzione utilizzata come base di computo della indennità risarcitoria, deve rilevarsi che correttamente il Tribunale ha fatto riferimento al decreto legislativo n°81/2015 e quindi all’ ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per come risulta dalle buste paga in atti (v. art. 39, comma 2°: “ Nel caso in cui il giudice accolga la domanda di cui al comma 1, condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore, stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge n. 604 del 1966.”).

 

Si rammenta che la retribuzione annua, ai fini del calcolo del tfr, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese; pertanto il criterio è quello della onnicomprensività ed eccezioni allo stesso possono essere contemplate solo dalla contrattazione collettiva, che viene autorizzata anche a prevedere, ai medesimi fini, una diversa nozione di retribuzione (cfr. tra le tante Cass. n. 24888/2019).Mancando, nella specie, qualsivoglia riferimento a previsioni contrattuali di diverso contenuto, la sentenza impugnata va esente da censure sul punto.

 

In ultimo, circa l’ammontare dell’indennità risarcitoria -che il Tribunale ha commisurato in sei mensilità e che, ad avviso dell’appellante, sarebbe dovuta, invece, essere fissata nella misura minima di 2,5 mensilità- deve rilevarsi che la quantificazione operata dal Tribunale appare equa tenuto conto della durata complessiva della missione, del comportamento posto in essere dalla società, della dimensione della stessa, dislocata su tutto il territorio nazionale in 18 sedi, e del numero dei lavoratori occupati nell’entità dichiarata dalla stessa pari a 8.600 in tutta Italia.

 

Per le ragioni suddette l’appello deve essere respinto.

 

Merita, invece, accoglimento l’eccezione riproposta in questa sede da parte appellata -che ha chiesto, sul punto, l’integrazione della motivazione della sentenza-, relativa alla mancanza del DVR.

Sul punto va innanzitutto evidenziato che l’effettuazione della valutazione dei rischi ex art. 33 d.lgs n. 81/2015 è imposta da norma imperativa in materia di rapporto di lavoro a tempo determinato, costituita dall'art. 3 d.lgs. n. 368/2001 e anche nella specie, l’impresa utilizzatrice, alla lettera b) di ciascuno dei contratti sottoscritti con l’Agenzia di somministrazione ha dichiarato di aver regolarmente effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del d.lgs. n. 81/2008.

Ciò posto, costituendosi in primo grado, ha prodotto i DVR che riguardano la “Sede di Lecce 1 e 2” in via De Mura a Lecce, nella versione dell’8.02.2017 e dell’8.02.2018 (cfr. allegato n. 2 del fascicolo di primo grado).

 

E tuttavia, deve evidenziarsi che le edizioni prodotte, depositate dalla società prive di allegati, si iferiscono alle sedi denominate “Lecce 1 e 2”, ma non anche all’unità Lecce 3 ( anch’essa ubicata in viale De Mura in Lecce), presso la quale l’appellata ha dedotto di avere espletato la propria attività lavorativa (cfr. punto 2, pag. 1, del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado), senza che abbia mai contestato tale allegazione.

 

In considerazione di tanto deve quindi ritenersi che sia rimasta indimostrata la sufficienza dei predetti DVR, riguardanti solo i plessi denominati “1 e 2”, e non anche l’unità n. 3. Né appare possibile ritenere che il DVR depositato in atti possa essere considerato valido per tutte e tre le unità site in via De Mura, perché facenti parte di un unico plesso, in quanto, in tal caso, sarebbe stato ultroneo fare riferimento esplicito, nei documenti in questione, alle sedi Lecce 1 e Lecce 2 nei DVR prodotti.

 

Ne consegue che, sotto questo profilo, si verte in materia di somministrazione irregolare per la quale vigono le conseguenze del secondo comma dell’art. 38 del d.lgs. n. 81/2015, per essere la somministrazione stata disposta in spregio al divieto di cui all’art. 32 comma 1 lett. d). Peraltro, ciò che la norma ha inteso sanzionare con la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato èproprio la mancata effettuazione della valutazione dei rischi (articolo 32 cit.), controllo cui è preposto il giudice del lavoro.