La violenza, anche verbale, nei confronti delle donne sul luogo di lavoro non giustifica il licenziamento del dipendente

Studio Legale Magnanelli and partners

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Senior Associate Lawyer presso Studio Legale Magnanelli and Partners

 


 

Con ordinanza n. 23029 del 22 agosto 2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha ribadito il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. civ. n. 5095/2011; Cass. civ. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

Nella fattispecie, la Corte territoriale, pur dando atto che, sotto il profilo oggettivo, la condotta del lavoratore si palesava oltraggiosa e volgare secondo il comune sentire e, con riguardo all’aspetto soggettivo, rimproverabile a titolo di dolo, tuttavia ha testualmente precisato che il comportamento: a) non integrava fatto di reato, essendo stato il reato di ingiuria depenalizzato né era stato contestato che da esso fosse derivato un grave nocumento agli interessi aziendali; b) non aveva determinato la condanna del lavoratore per fatto reato generatore di discredito per la sua personalità morale né era espressione di recidiva, non essendo stata formulata – e poi provata – una conforme contestazione; c) aveva leso piuttosto la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro.

Non viene in rilievo un problema, quindi, di violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 c.c. e/o di contrarietà alle regole di comune e civile convivenza esistenti nella realtà sociale che condanna qualsiasi forma di violenza, anche verbale, nei confronti delle donne, perché la sentenza impugnata ha dato atto della rilevanza disciplinare della condotta, realizzata mediante l’utilizzo di termini ex se umilianti e dunque con modalità volte a creare scandalo ed attuata con premeditazione e perseveranza del lavoratore di offendere la collega ma, sulla base di un accertamento di merito (per mezzo del quale è stato ritenuto trattarsi di un comportamento non seguito da vie di fatto e che aveva leso unicamente la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro) e di valutazioni giuridiche non contrarie a norme di legge (e cioè che la condotta non integrava fatti di reato né aveva determinato condanne in sede penale generatore di discredito per la personalità morale del lavoratore ovvero era espressione di recidiva), ha ritenuto che la stessa non si rivelasse incompatibile con il permanere del vincolo fiduciario che deve caratterizzare la relazione lavorativa.

Nella specie il giudice di appello ha giustificato la propria decisione di ritenere esclusa la possibilità che, nel caso di cui è processo, fosse applicabile la sanzione del licenziamento con preavviso (propria del giustificato motivo soggettivo) con motivazione esauriente, immune da vizi logici, di talché anche essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità. In particolare, la Corte distrettuale ha sottolineato che la suddetta sanzione, correlata appunto con la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, era prevista dalla contrattazione collettiva per infrazioni alla disciplina o alla diligenza del lavoro oppure per chi compiva mancanza che, pur essendo di maggiore rilievo di quelle sanzionabili in via conservativa, non erano così gravi da determinare il licenziamento senza preavviso e che la condotta addebitata al dipendente, secondo le previsioni appunto del contratto collettivo, non costituiva una infrazione suscettibile di essere sanzionata con il licenziamento con preavviso:

il tutto in un contesto in cui la contrattazione collettiva considerava il licenziamento con preavviso quale sanzione di chiusura del sistema, correlandolo alle mancanze di gravità intermedia, o perché si trattava di fatti di reato non collegati alla prestazione o al luogo di lavoro (per es. rissa fuori dallo stabilimento, condanna per reati che incidono però sulla figura morale del lavoratore) oppure perché le condotte del lavoratore avevano superato la dimensione di mera occasionale mancanza, assurgendo a ipotesi di recidiva: tutti elementi che non sono stati, però, ravvisati nel caso concreto.

Conclusioni

 

L’affermazione della Corte capitolina, in virtù della quale

 

il fatto commesso aveva disvalore sociale pari a quello delle infrazioni

 

punite dal contratto collettivo con sanzione conservativa e, quindi

 

correttamente andava accordata la tutela prevista dall’art. 18 co. 5

 

legge n. 92 del 2012, non è in linea con il più recente orientamento

 

di questa Suprema Corte (Cass. n. 11665/2022; Cass. n.

 

20780/2022) secondo cui, in tema di licenziamento disciplinare, al

 

fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18,

 

commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92

 

del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al

 

lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella

 

previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica,

 

punisca l'illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di

 

interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità

 

della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti

 

dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle

 

parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.

 

 

Alla stregua di quanto esposto, il ricorso incidentale deve

 

essere rigettato, mentre va accolto il ricorso principale.

 

 

La gravata sentenza deve essere cassata in relazione al

 

motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte di appello di Roma, in

 

diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame tenendo

 

conto del citato principio di diritto, ai fini di determinare la tutela

 

applicabile e provvederà, altresì, alle determinazioni sulle spese anche

 

del presente giudizio.

 

Fonte Giovanna Spirito da Njus 22/08/2024