
rappresentante del datore di lavoro - dalla quale discende la
responsabilità civile di parte datoriale - quale reato di violenza privata
vanno ricollegate le statuizioni in termini:
a) di ricorrenza, nel caso concreto, di “reato in contratto”,
determinante vizio del consenso per effetto di violenza
morale su una delle parti del negozio;
b) di conseguente annullabilità (e non nullità) dell’atto di
dimissioni;
Cassazione Civile Ord. Sez. L Num. 7190/ 2024
Non è possibile individuare un automatismo tra nullità e atto di
autonomia privata posto in essere in violazione di una norma
penale; nella prospettiva del diritto civile, non è sufficiente,
per aversi nullità del negozio, che sia sanzionata, anche
penalmente, la condotta di colui o coloro che l'hanno posto in
essere, dovendo farsi oggetto di verifica, piuttosto, le finalità
perseguite e gli interessi tutelati dalla norma violata;
l'individuazione del trattamento civilistico dell'atto negoziale
che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal
rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto
o negozio (Cass. n. 17959/2020, n. 26097/2016);
tradizionalmente, quando il negozio si è concluso
commettendo un reato, si usa distinguere l'ipotesi dei reati
commessi nell'attività di conclusione di un contratto, cioè dei
cd. "reati in contratto", e l'ipotesi dei reati che consistono nel
concludere un determinato contratto, in sé vietato, cioè dei
cd. "reati contratto";
in sintesi, la distinzione è la seguente: nel caso in cui la norma
incriminatrice penale vieti proprio la stipulazione del
contratto, in ragione dell'assetto degli interessi che esso mira
a realizzare, si è al cospetto del cd. "reato-contratto" (ad es.
la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione ex art. 648
c.p., il commercio di prodotti con segni falsi ex art. 474 c.p.);
allorché, al contrario, la norma penale sanzioni la condotta
posta in essere da uno dei contraenti in danno dell'altro nella
fase della stipulazione, rileva la categoria concettuale del cd.
"reato in contratto" (si tratta, per lo più, delle fattispecie di
reato caratterizzate dalla cooperazione artificiosa della
vittima come la violenza privata ex art. 610 c.p., l'estorsione
ex art. 629 c.p., la circonvenzione di persona incapace ex art.
643 c.p., l'usura ex art. 644 c.p.);
.
in altri termini, in tema di cause di nullità del negozio
giuridico, per aversi contrarietà a norme penali ai sensi
dell'art. 1418 c. c., occorre che il contratto sia vietato
direttamente dalla norma penale, nel senso che la sua
stipulazione integri reato, mentre non rileva il divieto che
colpisca soltanto un comportamento materiale delle parti o di
una sola di esse (Cass. n. 18016/2018);
in questa cornice interpretativa, è stato affermato che il
contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione
è affetto da nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c. (Cass. n.
17568/2022, n. 17959/2020 cit.);
diversamente, è stato affermato che le dimissioni del
lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono
annullabili per violenza morale, qualora venga accertata
l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al
licenziamento per insussistenza dell'inadempimento
addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta
ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento,
persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo
esercizio del diritto di recesso (cfr. Cass. n. 41271/2021, n.
8298/2012, n. 24405/2008; cfr. anche, parallelamente, Cass.
n. 18930/2016, sull’annullabilità del contratto concluso per
effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell'altro,
atteso che il dolo costitutivo di tale delitto non è
ontologicamente diverso, neanche sotto il profilo
dell'intensità, da quello che vizia il consenso negoziale);
è stato anche chiarito che la violenza morale esercitabile dal
datore di lavoro, che può determinare l’annullabilità
delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, può esprimersi
secondo modalità variabili e indefinite, anche non esplicite
(ad es., può agire anche solo come concausa, ed essere
ravvisata nella minaccia dell'esercizio di un diritto, quando la
relativa prospettazione sia immotivata e strumentale - Cass.
n. 24363/2010); e che le dimissioni rassegnate dal lavoratore
sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da
una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da
costituire una decisiva coazione psicologica, risolvendosi il
relativo accertamento da parte del giudice di merito in un
giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se motivato in
modo sufficiente e non contraddittorio (Cass. n.
16161/2015);
alla qualificazione in sede penale del comportamento del
rappresentante del datore di lavoro - dalla quale discende la
responsabilità civile di parte datoriale - quale reato di violenza privata
vanno ricollegate le statuizioni in termini:
a) di ricorrenza, nel caso concreto, di “reato in contratto”,
determinante vizio del consenso per effetto di violenza
morale su una delle parti del negozio;
b) di conseguente annullabilità (e non nullità) dell’atto di
dimissioni;